Due anni prima di quell’agosto 1964, la Hasselblad era diventata l’occhio non indifferente delle missioni spaziali. Ma in quel caldissimo 25 agosto romano, una di quelle mitiche macchine immortalò un pezzo di umanissima storia del nostro Paese: i funerali di Palmiro Togliatti. Nella mostra visitabile fino all’11 novembre al Museo delle arti e tradizioni popolari di Roma (25.8.1964. C’era Togliatti, a cura di Barbel Reinhard e Marco Signorini), il classico formato quadrato scelto dall’allora giovane fotografo Mario Carnicelli, racconta in modo perfetto quell’avvenimento.
«…Così percossa, attonita / la terra al nunzio sta». Ecco, tornano quei versi in mente nel guardare i volti fermati da Carnicelli. È un’umanità che è percossa dai colpi intollerabili e assai precisi del capitalismo, di un’Italia superficialmente definita «del boom», ma che se respirava un’aria un po’ meno intrisa di miseria e devastazione lo doveva all’immane fatica che aveva forgiato giorno su giorno quelle figure che, attonite, guardavano sfilare via la salma del loro capo. Di chi non li aveva difesi come un buon padre di famiglia, troppo facile annacquare nella bontà i nodi sociali e economici che determinano lo sfruttamento e la diseguaglianza, ma come un capo politico che lo scardinamento dei rapporti di forza che generano le intollerabili dismisure aveva voluto inserire nella Costituzione. Un capo politico che non avrebbe elargito qualche regalia domenicale alle cosiddette classi subalterne, ma trasformato quei volti nei protagonisti di una Rivoluzione, se pensiamo – come scrive anche da queste pagine Gianni Ferrara – che ogni Costituzione è atto rivoluzionario. Ora, in quei giorni estivi, il capo era morto, morto in un luogo lontano, inimmaginabile ai molti che ancora l’Italia non portava a scuola se non per mettere una stentata firma negli impegni di un durissimo lavoro, ma anche sopra la tessera di un partito e di un sindacato. Morto laggiù, ora la salma vera di Togliatti sfilava per oltre cinque ore nelle strade di Roma trasformando le spoglie mortali in corpo simbolico. Un corpo simbolico, paradossalmente per nulla reso eterno, ma tutto incastonato nella storia. Questo raccontano le foto di Carnicelli. Quei volti disegnati con poetica nettezza, determinati dal rapporto intenso con la luce, costruiti da ombre così sapienti che sembrano generarsi dai volti stessi, che rifuggono dalla velocità del reportage per porsi nel tempo pacato e profondo dell’interpretazione storiografica gramsciana, quei volti non rappresentano mai, pur nella bellezza immortalata in quelle foto, la ricerca estetica di una soggettività commossa che elabora una propria eternità del morto, ma sono preciso documento storico.
Sono l’addio consapevole a quello che Platone chiama l’uomo scritto in lettere maiuscole e che null’altro è che la definizione della polis. In quelle foto non si vedono quasi mai, se non come caravaggesco inquadramento, le bandiere rosse abbrunate oppure gli altri simboli comunisti, i segni dell’apparato. Certo, il pugno chiuso in segno di saluto, ma poi oltre agli sguardi consapevoli e carichi di orgoglio, ancora una volta sono i dettagli a parlare, le mani di chi lavora, gli abiti buoni e le cravatte pesanti tirati fuori a prescindere dalla stagione, i fazzoletti al collo, i fiaschi di vino nascosti per rispetto al «compagno segretario», i capelli tenuti a bada nonostante il caldo, insomma una cura straordinaria nel rendere visibili altri segni, non meno importanti, di quella «battaglia delle idee» che l’uomo che se ne era andato aveva chiesto e praticò fin nei minimi dettagli.