Quando gli capitò di esaminare il reperto, notò subito nell’involto il frammento di un’etichetta di carta consumata dai secoli. Si leggeva appena, in latino, regis, eppure nel 1878 tanto si fece bastare il paletnologo Luigi Pigorini per avocarne il trasferimento da Bologna a Roma, dove due anni prima aveva inaugurato un museo etnografico.
«Non sono lontano dal credere che fosse uno di quegli huesos che suonavansi alla reggia dello stesso Montezuma», scriveva lo studioso. Montezuma II, «colui che diventa sovrano con rabbia»: l’ultimo imperatore azteco, di cui il Messico si appresta a celebrare il cinquecentenario della morte, avvenuta nel 1520 al tempo crudele della conquista di Cortés.
Il protagonista della storia è un omichicahuaztli: uno strumento musicale ottenuto da un femore umano sinistro, sulla cui superficie anteriore sono state realizzate 19 tacche, in origine fregate con una conchiglia per produrre un suono ritmico. Ne sopravvivono altri, come dovrebbero sapere i due milioni di visitatori che ogni anno si regalano il museo di antropologia di Città del Messico. Quello di Roma, però, è unico. E non solo perché lo impreziosisce una decorazione a mosaico.
Chi vuole osservarlo deve raggiungere una vetrina del Museo delle Civiltà dell’Eur, che dal 2016 include quattro storici istituti tra cui il vecchio Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini. Nella teca l’omichicahuaztli resterebbe muto, se la ricercatrice Valeria Bellomia non ne avesse ricostruito la biografia. Una parabola che non ha nulla a che vedere con Montezuma. Piuttosto una complessa allegoria dell’incapacità occidentale di comprendere l’altro da sé, perpetuamente piegato al pregiudizio.

IN VIAGGIO
«Quest’oggetto è tra i primi a viaggiare con le navi pioniere che presentano il Nuovo Mondo all’Europa», racconta Bellomia. «Davide Domenici, archeologo dell’Università di Bologna, ha trovato in una biblioteca di Parigi un testo a stampa in italiano contenente la lista dei colli che un missionario aveva trasportato dal Messico. Il contenuto e lo stile datano il documento intorno al 1560. I primi due pezzi elencati sono una “gamba di re indiano” e la sua testa “ricoperta di mosaico”. Se quest’ultima è andata perduta, siamo certi che la gamba sia il nostro omichicahuaztli. Il testo descrive l’osso, le scanalature e la loro funzione, individuando il luogo di provenienza nel regno mixteco di Tututepec, situato lungo la costa pacifica dello stato di Oaxaca».
Poi, puntuale, fa la sua comparsa il pregiudizio. Per il missionario, infatti, il nemico del re di Tututepec è stato senza dubbio sacrificato per ricavarne dalle gambe, «a dispregio», uno strumento musicale; la testa sarebbe invece una coppa per bere il sangue. «Questa tradizione è tuttavia inesistente in Mesoamerica», chiarisce la ricercatrice, indicando la foto di una raffigurazione presente su una pittografia mixteca – il codice di Vienna, folio 24 – dove il serpente piumato Quetzalcoatl, nella sua manifestazione di dio del vento, suona un omichicahuaztli.
«Qui lo strumento sfrutta chiaramente, come cassa di risonanza, un cranio decorato a mosaico. Di tale uso abbiamo altri esempi nella stessa Oaxaca, presso la quale, nella tomba numero 7 di Monte Albán, sono stati anche trovati frammenti di omichicahuaztli. Il Museo nazionale di Antropologia di Città del Messico, inoltre, in associazione con gli strumenti conserva riproduzioni in terracotta di teschi con aperture in prossimità della calotta».
Il missionario del documento di Parigi, un domenicano, era forse lo spagnolo Juan de Córdova, attivo nella regione di Oaxaca e celebre per i suoi studi sulla lingua zapoteca. Dopo il ritorno in Europa del religioso, chiunque esso sia, si apre un buco cronologico. Intorno al 1560 lo strumento sbarca a Venezia, poi se ne perdono le tracce.
«Passa circa un secolo e lo troviamo a Roma nella collezione Chigi», continua Bellomia. «Il compilatore del suo catalogo deve aver attinto al testo parigino, perché usa le stesse parole. Parole destinate a durare. Morto il cardinale Flavio Chigi, la collezione versa in uno stato di grave abbandono e una parte di essa, tra cui il femore, finisce nelle mani di papa Benedetto XIV: Prospero Lambertini, nativo di Bologna». E anche a Bologna, nel 1745, si legge «osso di gamba di re» nell’accordo sottoscritto dal pontefice per donarlo al nascente museo archeologico della città. Nel 1878 Pigorini lo tira fuori dai suoi magazzini, resta colpito dal frammento regis e, convinto fosse suonato alla corte di Montezuma, dà in cambio reperti protostorici provenienti dall’Emilia per ottenere l’omichicahuaztli e altre curiosità delle camere delle meraviglie cinquecentesche di Ferdinando Cospi e Ulisse Aldrovandi.

BARUFFE ACCADEMICHE
Segue un’accademica baruffa. Non appena i bolognesi si accorgono di averci rimesso, Pigorini si vede costretto a pubblicare una lettera aperta in cui, ricordando di aver avuto carta bianca, sottolinea quanto male i reperti richiesti fossero trattati dai precedenti custodi. A Roma troveranno invece l’adeguato riconoscimento, lascia intendere.
Nel cuore della capitale, presso la sede del Collegio Romano, nel marzo del 1876 il paletnologo aveva inaugurato un museo in cui unire preistoria e etnografia allo scopo di studiare, sotto la lente eurocentrica dell’evoluzionismo, le culture altre.
Nel senso della sua operazione, in linea con il pensiero positivista dell’Ottocento, intravediamo il peccato originale dell’antropologia, sulla cui innaturale genesi illumina per altro la poetica mostra Middle Passage: il commercio transatlantico di esseri umani, visitabile al MuCiv quando finirà l’emergenza Covid-19. La vicenda dell’omichicahuaztli si fa metafora di un confronto con l’altro irresistibilmente misurato attraverso una produzione materiale caricata di significati posticci. L’alterità è filtrata da mostruosità e violenza, la sua religione è cruenta ma estirparla rientra nell’ordine delle cose: non sorprende come, nel documento parigino, i nativi siano già inquadrati in una fase di conversione e quindi perfettamente salvabili. Liberarli dall’idolatria: si deve e si può.
«I manufatti americani entrano nelle camere delle meraviglie europee per testimoniare l’ingegno di popolazioni che non devono essere schiavizzate, ma redente», ribadisce Bellomia. «I veri schiavi sono gli africani. Gli indiani sono invece esseri umani con le nostre stesse capacità intellettuali e artistiche, tant’è vero che sanno creare un elaborato strumento musicale. Hanno sbagliato strada – questo sì – ma se guidati possono cambiare rotta». Nel XIX secolo, i reperti raccolti dal Pigorini dovevano in sintesi offrire una comparazione scientifica tra il passato del Vecchio Mondo e il presente del Nuovo. Gli europei erano usciti dalla preistoria, gli indiani ancora no: indagarli serviva a scandagliare la nostra anima arcaica.
«Oggi – conclude la ricercatrice – mostriamo l’omichicahuaztli in una vetrina dedicata al sacrificio umano, per cui esso è ancora testimone del macabro. L’esposizione tace la sua stratificazione culturale e nasconde come vada esperito in termini sensibili: è stato realizzato per l’ascolto, non per essere visto».
Perciò, a partire dalle tracce d’uso, è stata elaborata un’analisi spettrale dell’audio. Una replica in 3D dello strumento, fornita dall’Università di Vienna, è stata fatta suonare, producendo un file che l’ingegnere Antonio Buonomo ha comparato con un campione musicale ottenuto dall’originale. Così, nel prossimo allestimento, grazie al sonoro il pubblico non dovrà più limitarsi a guardare, ma avrà la possibilità di scardinare con i propri sensi uno dei tanti mattoni messi in posa dal colonialismo.