«Uno degli obiettivi nelle nostre vite e di questo film nello specifico è capire come connettere l’esperienza individuale con la collettività» afferma Isaki Lacuesta. Il suo Un año, una noche, presentato in concorso alla Berlinale, racconta il percorso attraverso il trauma di una coppia sopravvissuta agli attacchi del Bataclan, a Parigi nel 2015. Il regista si è ispirato al libro di Ramón González Paz, amor y death metal, cercando di trasformare in immagini ciò che Ramón e Céline vissero quella notte, il loro disperato tentativo di rimanere insieme ma anche il desiderio di curare le ferite e di vivere intensamente nonostante tutto. Abbiamo incontrato Lacuesta e gli abbiamo posto alcune domande sul film, un necessario contributo all’elaborazione di ciò che l’Europa ha attraversato negli ultimi anni.

Cosa l’ha attratta del libro «Paz, amor y death metal»?

All’inizio non credevo di poter fare questo film, non mi sentivo legittimato. È stato il mio produttore, Ramón Campos, a portarmi il libro nel quale ho scoperto molti momenti che come sceneggiatore non sarei mai riuscito ad immaginare, sia rispetto alla notte degli attentati che all’anno successivo. Allora ho deciso di incontrare Ramón e Céline, dopo averli conosciuti ho capito che trasmettere la loro esperienza al pubblico era la cosa da fare. Ancora non sapevo quale sarebbe stata la struttura del film e come avrei lavorato sulla rappresentazione della violenza, c’è voluto circa un altro anno e mezzo per tutto questo, ma sapevo di voler raccontare la loro storia, sentivo di potermi identificare con loro nonostante avessero due attitudini molto diverse.

La rappresentazione della violenza infatti è un grande tema, ho trovato interessante che nel film non vediamo tutto ciò che vedono i protagonisti come i cadaveri al Bataclan o le facce degli aggressori. Perché ha scelto di non mostrarli?

Anche non mostrando si può mostrare, al cinema basta un dettaglio, oppure un suono. Capire come rappresentare la violenza è stato complesso, ci ho lavorato molto insieme a Irina Lubtchansky, la direttrice della fotografia. Avevamo la tentazione di saltare completamente i momenti dell’attacco ma sentivamo che sarebbe stato un fallimento nei confronti dei ricordi di Ramón, non potevo evitare questa responsabilità. Abbiamo pensato al film Il figlio di Saul di László Nemes e abbiamo provato a realizzare una sequenza in cui si sarebbero visti i cadaveri fuori fuoco ma non funzionava, siamo arrivati alla conclusione che il Batalcan è troppo più vicino temporalmente a noi rispetto all’olocausto di cui abbiamo già visto molte rappresentazioni, nonostante anche un membro della mia famiglia sia stato a Buchenwald. È solo nel processo che si può imparare a fare un film, le idee vanno sempre verificate nella pratica.

In questi mesi si sta svolgendo il processo agli attentatori, per lei è significativo che «Un año, una noche» esca proprio ora?

Non vorrei che qualcuno pensasse che vogliamo approfittarci del processo per ottenere visibilità perché non è assolutamente così. La cosa più interessante per me è che in tribunale stiamo ascoltando moltissime voci, persone che raccontano esperienze a volte estremamente simili a quelle di Ramón e Cèline e altre volte molto diverse. I media tendono a parlare delle vittime e dei sopravvissuti come di un collettivo omogeneo mentre non esiste nulla di simile, considerato che i due protagonisti, che erano insieme durante gli attacchi, hanno vissuto qualcosa di molto differente.

Infatti sono proprio i diversi modi di affrontare il trauma a dividere la coppia protagonista.

Sì, perché non trovano una corrispondenza. Lui è ferito, ha bisogno di cambiare la sua vita ma non sa come, deve aggrapparsi ai ricordi dell’accaduto mentre lei nega completamente, non vuole riconoscersi in quanto vittima. È interessante il fatto che fino a pochi anni fa nei processi era considerata una vittima a tutti gli effetti solo chi aveva accusato delle lesioni fisiche, mentre dopo questi attacchi terroristici non è più così.

Qual è il ruolo della musica per lei in questo film?

È centrale. Anche se non è un soggetto di discussione per me è innanzitutto un film sulla musica, sulle persone che non rinunciano a vivere con la musica, con i concerti, con la poesia, l’amore e la letteratura. Sono molto felice del lavoro di Raül Refree che ha composto la colonna sonora in molti stili diversi, dalla classica alle canzoni rock n roll che vengono cantante da Lee Ranaldo dei Sonic Youth, una leggenda per me.