Il 4 luglio scorso, quando Enrico Letta ha incontrato a palazzo Chigi il premier libico Ali Zeidan, i due si sono trovati d’accordo nel riconoscersi come «partner strategici» per quanto riguarda gli accordi economici, ma il premier italiano ha tenuto anche sottolineare quanto sia importante per l’Italia che la Libia non abbassi la guardia nel contrasto dell’immigrazione clandestina. Al punto da assumersi l’impegno, anche economico, di addestrare circa 5.000 libici, tra forze armate e polizia, nel controllo delle frontiere.
Sia gli scambi commerciali che il contrasto dell’immigrazione faranno sicuramente parte dell’agenda dei lavori della conferenza per l’assistenza alla Libia che il premier si è impegnato a tenere a Roma entro la fine dell’anno, sorvolando però un po’ troppo velocemente sulle quotidiane violazioni dei diritti umani compiute ogni giorno nel paese nordafricano. Certo, il premier ha chiesto a Zeidan di mettere fine alla violenze sui civili e di rispettare i diritti degli immigrati, ma quelle di Letta sembrano essere raccomandazioni più che altro formali. Tant’è vero che il governo italiano, secondo quanto denunciato da Amnesty international, si sarebbe anche assunto l’impegno di ammodernare alcuni centri nei quali i libici detengono, del tutto arbitrariamente, migliaia di migranti, donne e bambini compresi. «Una scelta – ha denunciato pochi giorni fa Amnesty- che rende l’Italia complice della detenzione arbitraria e a tempo indeterminato dei migranti stessi, senza alcun riguardo ai diritti umani».
In Libia esistono 17 centri di detenzione per migranti ufficialmente gestiti dalle autorità di Tripoli, più un numero imprecisato di centri in mano alle milizie. In tutti, indipendentemente da chi li governa, il modo in cui i migranti vengono trattati non ha nulla di umano, come dimostrano le tante testimonianze che ogni tanto arrivano da quei luoghi. Pestaggi, torture, violenze alle donne, assenza di ogni tipo di assistenza medica (tra l’altro sempre Amnesty denuncia come la Libia abbia cominciato a deportare gli immigrati ammalati di epatite B, C o Aids). La decisione di ristrutturare i centri anziché pretendere che vengano chiusi, appare quindi quanto meno discutibile, tanto più se si considera che nel 2012 il parlamento europeo ha adottato una risoluzione in cui invita tutti gli Stati membri a stipulare ulteriori accordi su controllo dell’immigrazione con la Libia solo dopo che Tripoli abbia dimostrato di rispettare e tutelare i diritti umani di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, riconoscendo le richieste di protezione internazionale. Si consideri che finora, nonostante siano passati più di 60 anni, Tripoli non ha ancora sottoscritto la Convezione di Ginevra.
La tragedia immane di queste ore è una conseguenza di politiche sull’immigrazione che puntano sempre e solo al contrasto e mai all’accoglienza. Magari nascondendosi dietro l’ipocrita giustificazione di voler colpire i mercanti di uomini, tanto usata dall’Unione europea per spiegare le sue politiche repressive. E l’Italia in questo non è certo differente. Basti pensare che in questi primi sei mesi di legislatura il governo delle larghe intese non solo non ha fatto nulla per modificare le politiche sull’immigrazione volute dai vari governi Berlusconi sia in patria, dalla Bossi-Fini al vergognoso reato di clandestinità, che nei trattati internazionali. Come Monti prima di lui, anche Letta non ha infatti previsto la cancellazione, ad esempio, del Trattato di amicizia tra Italia e Libia firmato nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi e che rende possibili i respingimenti in mare dei barconi carichi di immigrati. Una pratica – è bene ricordarlo – condannata nel febbraio dello scorso anno dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Ma non si è mai sognato neanche di alzare davvero la voce con Tripoli, pur sapendo come tratta gli immigrati, limitandosi a chiedere, ancora e come sempre, che controlli meglio le sue frontiere. Nella convinzione, falsa, che solo impedendo la partenza delle carrette del mare si possono evitare tragedie come quella di ieri. Perché in fondo quello che importa sono gli affari.