Scomparso appena trentasettenne, alla stessa età di Raffaello e Rimbaud, Jean-Loup Charvet (1961-1998) fu una singolare figura di storico dell’arte, contraltista e musicologo, allievo di James Bowman e Louis Marin, nonché borsista all’École Française di Roma e pensionnaire a Villa Medici. Appassionato lettore di Simone Weil e Pascal, i suoi interessi si concentrarono intorno alla tematica delle lacrime in ambito barocco, con addentellati che si sviluppano, oltre che in ambito musicale, anche in chiave letteraria e figurativa. Il suo capolavoro, L’eloquenza delle lacrime, originariamente pubblicato nel 2000 da Desclée de Brouwer, fu tradotto nel 2001 da Annamaria Carenzi per Medusa che ora allestisce una nuova edizione, arricchita dal saggio inedito Le lacrime nell’epoca barocca, un paradosso eloquente, proposto nella diligente versione di Riccardo De Benedetti (pp. 132, € 16,00). Si viene così a delineare con più precisione l’immagine di questo studioso sui generis, animato da una cultura e una sensibilità d’eccezione, quasi morbose, attinenti principalmente al repertorio musicale comprendente le lamentazioni di Bach, Purcell o Dowland, le Leçons de ténèbres o le arie di corte francesi (si veda anche il CD intitolato Flow my tears: Larmes baroques, edito da Astrée Auvidis nel 1998, in cui Charvet interpreta motivi di Dowland, Purcell, Couperin, Rameau, Vivaldi, Haendel).
Il libro è una sorta di lunga digressione intorno a quelle che Marin Cureau de la Chambre, autore del trattato secentesco Les Charactères des passions, definì «sangue dell’anima» e che, in epoca più recente, Jacqueline Risset ha chiamato «rugiada dell’essere». Tra una divagazione intorno a un dipinto di Guido Reni o al lamento di Don Ottavio che cerca di consolare Donna Anna in una splendida aria del Don Giovanni mozartiano («Egli piange veramente, perché consola», suggerisce Charvet) e un confronto tra il riso di Democrito e il pianto di Eraclito («Le lacrime di Eraclito nascono dalle pieghe del viso di Democrito»), l’elegante prosa di questo «storico delle lacrime» si orienta verso un’«estasi melodica» che procede di pari passo con gli argomenti affrontati, alla ricerca della definizione più esatta per cristallizzare concetti talora evanescenti: «I mistici spagnoli, da Osuna a Teresa d’Avila passando per Ignazio di Loyola, distinguevano diversi tipi di lacrime». Baltasar Gracián convive così con Monteverdi, Cagnacci con il castrato Farinelli, la Melancholia di Dürer con quella di Robert Burton, mentre un’aria di Haendel, esibita attraverso la scheggia di uno spartito, invita a lasciar «piangere le lacrime fino a interrompere le parole, ad abolire il linguaggio». Queste epifanie conservano la leggerezza di cui parla Simone Weil, evitando la deriva semiologica, ma approfondendo oltremisura il versante interdisciplinare, coniugando sapientemente esprit de finesse e esprit de géométrie: «Le vere lacrime si offrono. O, più precisamente, si ricevono. Sono l’unica cosa che si ha il diritto di sprecare, perché non è possibile procurarsele. Essendo la cosa più preziosa al mondo, si offrono, o piuttosto vengono offerte. Si parla del dono delle lacrime».
Ideale pendant a tale lavoro è costituito da Il canto degli angeli e la voce delle passioni che esce, sempre per i tipi di Medusa, con traduzioni di Anna Maria Brogi e Riccardo De Benedetti (pp. 110, € 13,00). Anche questo volumetto, assemblato in italiano con scritti dispersi nel 2003, è presentato in una versione accresciuta, accogliendo il saggio intitolato Contralti e castrati: la voce degli angeli, la voce del cuore. Questo testo rappresenta un’articolata ricognizione, uscita originariamente in «Littératures Classiques» del gennaio 1990, insieme a contributi di vari studiosi fra cui Marc Fumaroli, intorno a «quelle voci mascoline sopracute scomparse all’alba del XIX secolo, in seguito riscoperte in modo più o meno anarchico» tra le quali si possono annoverare contraltisti, castrati, falsettisti, controtenori, dessus-mués.
Riguardo alla condanna perpetrata dagli enciclopedisti nei confronti di «voci sfuggite all’infanzia», considerate innaturali, Charvet osserva: «Poiché l’uomo barocco non potrebbe accettare il mondo com’è, lo sogna, postula un altrove dove sia riconosciuto il suo diritto a essere altro, o meglio inventa un universo dove siano finalmente abolite le categorie dell’uno e dell’altro». E ancora, con riferimento alla figura dell’ermafrodita alchemico: «Dal momento che il contralto celebra questa comunità essenziale tra l’uomo e la donna, egli parteciperà all’espressione di tutti i grandi miti fondatori dell’erotismo barocco».
Jean-Luc Soulé ripercorre, nella sua nota introduttiva, le vicissitudini legate alla frequentazione con Charvet, mettendone in luce il rigore e l’acribia con i quali si impose presso una ristretta cerchia di melomani, affidando talora i propri scritti a programmi di sala che accompagnavano i concerti o a piccole riviste specializzate. In uno di questi contributi lo studioso azzarda la seguente, impareggiabile definizione: «Il Barocco è forse questo: il desiderio di vivere nel doppio per meglio raggiungere l’uno, di partecipare al molteplice per accedere all’unità».