In questa storia (L’acqua calda e l’acqua fredda), fare un documentario ha significato mettersi in ascolto del lavoro operaio, delle sue narrazioni antiche e presenti, delle sue contraddizioni, delle sue parole – desuete e rimosse – pure non ancora perdute. Vissuti individuali, collettivi, intergenerazionali, migratori. Perché non è possibile raccontare il lavoro com’è, immaginare come potrebbe essere, senza agire la memoria di com’era. «Destino ha voluto che, come mio padre, diventassi gruista di colata… mi sono scontrato con la realtà di tanti anni del suo lavoro … Quando lo vedevo tornare stanco, nervoso – non che si sia mai comportato male – non capivo come mai non ci fosse quel dialogo tra padre e figlio». Com’era: «Ho iniziato a 15 anni in fabbrica, nel ‘66 … come turnista in acciaieria». «Ho cominciato a 13 anni a Giovinazzo (in provincia di Bari, ndr), come attrezzista di laminatoio». «Non potete immaginare in che modo si lavorava nelle Acciaierie Ferriere pugliesi. Addirittura senza guanti .. dovevi prendere il profilato a mani nude: gli infortuni erano mensilmente a valanga». Ancora: «Quando le acciaierie hanno chiuso, tanti sono rimasti delusi, hanno dovuto ricominciare daccapo, o come manovali, o mettendosi a studiare o partendo». E com’è … «Ho saputo che Valbruna, il colosso dell’acciaio di Vicenza, cercava manodopera al sud, che proponeva il lavoro e la casa, ho inviato la domanda, il giorno dopo mi hanno chiamato … un sogno». La molteplicità delle esperienze soggettive. «Un po’ per evadere dal paese, un po’ per lavoro … sono partito da Giovinazzo. Mi sono detto, se mi trovo bene resto, altrimenti … Sono rimasto 19 anni, ma solo due in acciaieria, mi mancava lavorare all’aperto». «Molti sono andati via dopo un anno, altri dopo due …». «Prima i vicentini non volevano lavorarci in ferriera, per il caldo le polveri il rumore i rischi. Ora è diverso». Ma fare un documentario come questo di Martina Resta e Giulio Todescan, vuol dire anche disporsi all’ascolto visivo, all’osservazione paziente, al darsi il tempo dello stare, del colloquio per quadri fissi e senza fretta. Il porticciolo di Giovinazzo, lo sciabordio rassicurante dell’acqua, le vie con le case basse, che sfociano sul mare, l’orizzonte postindustriale della fabbrica dismessa («che fa venire il crepacuore»), l’edificio vuoto e silente del lavoro e delle vite pulsanti, un binario morto del «treno» che portava il profilato e lo sfondo quieto del tramonto, ruderi ischeletriti dove i colombi fanno il nido. E ancora, senza soluzione di continuità, immagini d’archivio di lavoratori davanti alla fabbrica, quadri in bianco e nero delle prime manifestazioni sindacali con bandiere che lo stesso appaiono rosse, e le luci di Valbruna e la sua mole nella notte. Il titolo del documentario in sovrimpressione sui muri di quest’ultima, allude a una miscela che tutti conosciamo: L’acqua calda e l’acqua fredda. Perché nel film, passato e presente, sud e nord, come parti lacerate del corpo di questo Paese, Vicenza – con le sue medaglie per il Risorgimento e la Resistenza, con l’imprinting del Palladio – e Giovinazzo, coi muretti del lungomare, il ricordo di bambini che facevano scivolare slittini di lamiere sulle montagne nere del «parco scorie», con la nube che ammorbava i panni e attentava alla luce inarrivabile del sole, col profumo dei suoi uliveti, appaiono – complice il montaggio curato da Marina Resta – come un’unica geografia umana e sociale, un unico paesaggio interiore e politico. E c’è dell’altro. Il film, già presente in numerose rassegne (ci incontriamo a Milano a Sguardi Altrove), trasversalmente a Puglia e Veneto, sarà parte nei prossimi giorni del Working Title Film Festival, dedicato al cinema del lavoro, un progetto che i due filmmaker, grazie a una raccolta fondi dal basso, inaugurano quest’anno a Vicenza. A voler esprimere la necessità di uno spazio in cui nutrire e custodire la cultura cinematografica sull’argomento, l’immane patrimonio lasciatoci da Monicelli Visconti Petri De Santis Scola … fino ai germogli del passato prossimo e presente: Daniele Segre, Francesca Comencini, Andrea Segre, Costanza Quatriglio … senza dimenticare lo scenario internazionale. Nel documentario di Resta Todescan, 14 operai e un giornalista del periodico giovinazzese InCittà raccontano cosa siano state le AFP per un paese dove il lavoro o non c’era o non dava garanzie o era in nero, come avessero coinvolto in modo pervasivo, nel bene e nel male, tutta la popolazione (su 20mila anime, ogni famiglia aveva almeno 2, 3 lavoratori in ferriera): le condizioni «animalesche», «l’amianto in tasca», ad alcuni si bruciano i testicoli, e la silicosi e l’asbestosi, e l’aumento dei casi di tumori … Fino alle prime lotte sindacali, dallo sciopero per il pane all’occupazione della ferrovia, stremati da mesi senza cassa integrazione e dall’incombere del licenziamento di massa, e i rapporti con le sezioni del PCI, della DC, con Moro, «Di Vittorio e Padre Pio», i finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno, una fabbrica rossa politicamente e sindacalmente, «la Stalingrado barese»… fino alla parabola della chiusura nel ’79, l’emigrazione di tanti (nella acciaieria vicentina più della metà vengono da Giovinazzo, il proprietario stesso è del sud). «Un dipendente Valbruna può avere origini meridionali, ma non è più un meridionale, lavoratore in origine vicentina, ma non è più vicentino.. perché le culture si confrontano e ne creano una nuova … È come l’acqua calda e l’acqua fredda, dove l’acqua tiepida è qualcosa delle due …» affiora nell’incipit del film. Allora è mischiarsi, conquistarsi la stima reciproca, andare oltre il «voialtri», scoprire che ai vicentini piace imparare il dialetto pugliese; allora non pesa farsi anche 7 ore di macchina pur di tornare a casa, allora negli sguardi di oggi, come in quelli di un tempo, a rivolgersi in camera in questa lunga «pausa pranzo», si avverte quello struggimento che dà un lavoro usurante come questo, ma anche il lampo del desiderio di felicità di cui scrive Roberta De Monticelli, quella manifestazione di sé di cui parlava Arendt, come rivelare «attivamente l’unicità della identità personale».
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WORKING TITLE FILM FESTIVAL Prima edizione del festival del cinema del lavoro dal 27 aprile al 1 maggio a Vicenza al cinema Primavera, Exworks e Polo Giovani B55. La direzione artistica e l’organizzazione sono di Marina Resta, ufficio stampa, web e grafiche di Giulio Todescan. In programma il 27 aprile «La legge del mercato» di Stéphane Brizé (Palma d’oro a Cannes a Vincent Lindon) e «Il gesto delle mani» di Francesco Clerici ad abbracciare il processo creativo dello scultore Velasco Vitali. Nei giorni a seguire «La neve nera Luigi Di Ruscio ad Oslo un italiano all’inferno» di Angelo Ferracuti Paolo Manzoni, «Atelier Colla» di Pietro de Tilla Guglielmo Trupia Elvio Manuzzi, «UPM Unità di produzione musicale» di Pietro de Tilla, Elvio Manuzzi, Tommaso Perfetti, «Colpa di comunismo di Elisabetta Sgarbi, «Il successore» di Mattia Epifani, «Triangle» e «Con il fiato sospeso» di Quatriglio e SmoKings di Michele Fornasero, «El mostro. La coraggiosa storia di Gabriele Bortolozzo» di Lucio Schiavon, Alex Garbaulet.. Tra gli eventi il 28 «Il Primo Maggio dei freelance» dibattito con Matteo Benedetti (Acta), Nicola Chiarini (Re:fusi), Roberto Ciccarelli (il manifesto), Liviana Davì (Kinodromo), Diego Di Masi (Coordinamento Ricercatori non strutturati UniPd), modera Gianni Belloni (Lies). Il 1°maggio alle ore 16.30 Klondike – Maratona web series, La Buoncostume