Eduard è in piedi sotto il sole africano di mezzogiorno. Tiene in mano alcuni appunti con cui ha appena finito di parlare a un gruppo di profughi sud sudanesi che vivono sui terreni della sua comunità, nell’insediamento di Rhino, estremo angolo nord-occidentale dell’Uganda. Ci spiega che per quanto difficile sia la situazione, comunità ospitanti e profughi vanno d’accordo e non si registrano conflitti per la terra. L’accesso limitato a terreni coltivabili – in una regione molto arida – comporta tuttavia una produzione relativamente bassa di alimenti, unita al problema dell’approvvigionamento idrico durante le stagioni secche.

L’INTERVENTO DI EDUARD nell’assemblea è stato dettato dal problema dell’ombra. Molte attività quotidiane possono essere svolte solo al riparo dal torrido sole e parte dei pochi alberi presenti vengono tagliati dalle famiglie di profughi in sostituzione della carbonella per cucinare, sia per i costi di quest’ultima sia per i ritardi nelle distribuzioni.

Nel distretto di Arua, dove si trova l’insediamento di Rhino, più di un quinto della popolazione è composta da profughi sud sudanesi. È una regione dell’Uganda che nella sua storia più recente ha subito la violenza dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) di Joseph Kony, una terra che ha visto la fuga delle forze armate durante la caduta di Amin Dada, una terra emarginata e popolata da tribù nilotiche, differenti da quelle bantu delle fertili regioni meridionali.

 

Addis Abeba, 12 settembre 2017 (Afp)

 

Nonostante la vicinanza della frontiera con il Sud Sudan, la firma dell’accordo di pace siglato ad Addis Abeba il 12 settembre scorso tra il presidente sud sudanese Salva Kiir e l’ex vicepresidente e leader del principale gruppo antagonista, Riek Machar, pare essere una notizia ancora poco diffusa. I profughi che riusciamo a intervistare si mostrano sospettosi, a memoria della fragilità di accordi passati e del reiterarsi delle violenze che ne seguirono la rottura. I racconti sono diversi ma tutti sembrano seguire un copione unico, fatto di imboscate, fughe notturne, famiglie divise o morti lasciati per strada.

DURANTE IL LUNGO PROCESSO di consultazione che ha portato Kiir e Machar al tavolo delle trattative, Uganda e Sudan si sono proposti come garanti degli accordi e hanno accolto la pace come un successo diplomatico personale. Per il presidente ugandese Yoweri Museveni si tratta di far transitare il Sud Sudan di Kiir sotto la protezione di Kampala, in un’eterna contesa con l’Etiopia per l’egemonia nel Corno d’Africa. Anche qui il copione è lo stesso di molti conflitti: l’Uganda è stata tanto propositrice della pace, quanto in prima linea nella vendita di armi e nell’accoglienza dei civili in fuga.

Il sistema ugandese prevede l’assegnazione di un lotto di terra per ogni famiglia, la libertà di movimento sul suolo nazionale e un inserimento nelle liste per le distribuzioni di cibo e acqua. Per ora la situazione sembra tenere, ma nessuno sa dire quali prospettive spettino a questi profughi: saranno integrati in futuro come cittadini ugandesi? Torneranno nei rispettivi paesi di origine? Costituiranno nuove comunità? Il rischio è di non riuscire più a sottrarsi dalla dipendenza degli aiuti umanitari o di avere migliaia di persone al di fuori di uno status giuridico preciso, né cittadini né profughi, in una sorta di limbo che l’orizzonte e il paesaggio che ci sta intorno sembrano già incarnare.

UNA RECENTE INCHIESTA congiunta del governo ugandese e dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) ha poi messo in luce che le autorità di Kampala avrebbero sovrastimato di oltre 300 mila unità il numero di rifugiati presenti nel paese. L’indagine, durata oltre otto mesi, ha portato lo scorso marzo alla sospensione del commissario governativo per la crisi dei rifugiati, Apollo Kazungu, assieme ad altri tre funzionari del suo ufficio, accusati di collusione con il personale dell’Unhcr e del World Food Programme. L’Ufficio del primo ministro ha spiegato che il ridimensionamento tra rilevamenti biometrici e liste governative può essere giustificato dall’enorme numero di persone che si sono riversate in Uganda dal Sud Sudan tra 2016 e 2017, considerando poi l’irreperibilità di alcuni a successivi censimenti. Ci sono tuttavia cifre e nomi fantasma che non lasciano spazio a «errori di sistema» e che gettano più di un’ombra sull’acclamata fama internazionale che l’Uganda ha costruito attorno al proprio sistema di accoglienza.

AL DI LÀ DELL’ESATTEZZA o meno del numero di profughi – parliamo comunque di oltre un milione di persone giunte in un paese più piccolo dell’Italia – la preoccupazione maggiore del governo di Museveni resta il documentato drastico taglio dei fondi agli aiuti umanitari. Dei paesi dell’East African Community (Eac) l’Uganda è quello che si è visto più che dimezzare i fondi per gli aiuti umanitari, passati dai 346 milioni di dollari del 2017 ai 158 milioni del 2018, secondo le stime del Norwegian Refugee Council, il quale fa notare che la contrazione va di pari passo con la diffusione di amministrazioni conservatrici o di destra tra gli stati occidentali principali finanziatori.
Nel giugno 2017, durante l’Uganda Solidarity Summit on Refugee, alla presenza del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e dei rappresentanti di diverse nazioni, il presidente ugandese ha fatto intendere – a metà tra il ricatto e la promessa – che se l’Uganda dovesse chiudere le frontiere per mancanza di fondi, molti dei flussi migratori che oggi confluiscono nei paesi dell’Eac potrebbero essere dirottati verso il corno d’Africa e il Nord Africa, prospettiva che l’Europa vorrebbe scongiurare a ogni costo e che porterebbe al collasso paesi come Eritrea, Etiopia e Somalia.

CHE MUSEVENI ABBIA FESTEGGIATO quindi a Juba la fine del conflitto sud sudanese in testa al corteo di pace è la riprova di come il 74enne leader africano non abbia intenzione di ritirarsi dalla scena politica e di come intenda cavalcare le trasformazioni che stanno investendo l’Africa Orientale, facendo leva sulle situazioni di crisi e sulle paure tutte occidentali di un’Africa affamata e in movimento.

 

Miliziani sud sudanesi fedeli a Riek Machar (Afp )

 

Sud Sudan, una fragile pace sotto tutela

Il 12 settembre 2018 è stato siglato ad Addis Abeba l’accordo di pace che dovrebbe porre fine al conflitto quinquennale in Sud Sudan. Il traguardo è il risultato di un lungo processo di consultazione guidato dall’Igad (Intergovernamental Authority on Development), commissione che rappresenta il blocco regionale dell’Africa orientale, con la “tutela” di Uganda e Sudan come garanti. Inizia ora per il Sud Sudan un periodo di transizione di otto mesi, in cui si preparerà il ritorno in carica del vicepresidente Riek Machar, mentre Salva Kiir manterà la presidenza. Seguirà una seconda fare di tre anni, che dovrà portare il Paese – indipendente dal 2011 – a nuove elezioni. Gli acerrimi nemici su cui si è polarizzato un conflitto che ha fatto più di 4 milioni di sfollati hanno partecipato insieme alla cerimonia ufficiale per la pace indetta lo scorso 31 ottobre a Juba, capitale del Sud Sudan. Resta da chiedersi se questo risolva le pesanti divisioni tra Dinka e Nuer, le principali etnie cui appartengono rispettivamente Kiir e Machar. Non solo, durante gli anni del conflitto si sono moltiplicati i gruppi ribelli che hanno avanzato rivendicazioni territoriali e che sono stati esclusi dall’accordo di pace. Per ora sarà creata una forza con soldati dei Paesi dell’Igad, in attesa che un esercito nazionale, fedele a Juba, possa procedere al disarmo della popolazione e al mantenimento del cessate il fuoco.