Editoriale

L’acciaio deve tornare sui binari

Piombino La sentenza della Corte del 2013 allargava il campo d’azione del decreto «Salva Ilva», ma Piombino ne è stata esclusa

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 aprile 2014

Con l’avvio dello spegnimento dell’alto forno di Piombino si potrebbe concludere la lunga storia di questo polo siderurgico, nato nel 1865. Potrebbe essere l’inizio della fine della nostra siderurgia. Per inquadrare il problema, è necessario riportare alcuni dati essenziali. Piombino dà occupazione a 2.153 persone, senza considerare l’indotto. Gli addetti dell’intera siderurgia italiana erano 36.000 nel 2012. Piombino è a ciclo integrale (produce acciaio “direttamente” dal ferro).

L’impianto ha una capacità produttiva di 2.500.000 tonnellate annue, pari a circa il 10% della capacità produttiva italiana. Piombino è un sito strategico. In Italia si produce acciaio prevalentemente con forno elettrico, quindi da rottame e con elevati consumi di energia. Il rottame è una ” materia prima scarsa”, a differenza del ferro, e soggetta ad un costante incremento dei prezzi. Privarci di un impianto a ciclo integrale (l’altro è Taranto, anche lui a rischio di sopravvivenza) significa indebolire strutturalmente la siderurgia italiana e l’industria del nostro paese. Infine, solo Piombino è in grado di produrre rotaie e quindi la sua chiusura ci condannerebbe come alla dipendenza dall’estero, facendo lievitare il costo delle infrastrutture ferroviarie.

Ci sarebbero stati, quindi, numerosi motivi, sociali e industriali, per intervenire con decisione per salvare e rilanciare Piombino. Così non è stato. La società Lucchini Spa, che aveva acquistato a prezzi discount lo stabilimento dall’impresa pubblica in dismissione, era entrata in amministrazione straordinaria nel 2012. Il commissario (l’ex amministratore delegato della Lucchini privata) ha tirato a campare con risultati disastrosi: da un fatturato 2011 di 1,2 miliardi di euro e un sostanziale pareggio (-6 milioni euro) si era passati nel 2012 ad un volume di affari di 880 milioni e a una perdita di 165 milioni. Nell’autunno del 2013 era evidente che non si poteva proseguire con questa gestione. Serviva una svolta ed esistevano anche gli strumenti giuridici per attuarla.

La sentenza della Corte Costituzionale dell’aprile 2013 aveva allargato i campi di intervento del così detto decreto Salva Ilva (Decreto Legge n.61 del 4 giugno 2013), contemplando la possibilità di commissariare un’azienda, qualora si fosse in presenza di una grave crisi occupazionale sul territorio. Era il caso di Piombino. Era possibile togliere la Lucchini Spa dall’amministrazione straordinaria e condurla all’interno della “potestà” governativa, così come era avvenuto per l’Ilva. A questo punto si poteva realizzare un polo siderurgico, mettendo a fattor comune Taranto e Piombino e gli stabilimenti collegati. Lo stesso governo poteva ricercare produttori siderurgici, come la coreana Posco o i grandi gruppi cinesi, fortemente interessati ad entrare sul mercato europeo e ad avere una localizzazione nel mediterraneo. Se lo si è fatto per l’Alitalia, lo si poteva fare anche per la siderurgia a ciclo integrale! Ed invece si è preferito continuare con l’amministrazione straordinaria, con un ulteriore aggravante: inventarsi soluzioni miracolistiche, quali quella dell’impianto Corex, una tecnologia che Siemens non riesce a vendere nel mondo e avrebbe dovuto regalarla a Piombino (sic !).

Un’altra idea, purtroppo ancora portata avanti, era la realizzazione di un forno elettrico, che utilizzasse il rottame derivante dallo smantellamento della Costa Concordia. Ma la nave può fornire 50.000 tonnellate, quantità in grado di assicurare solo un mese di produzione (il nostro paese consuma in un anno 21 milioni di tonnellate di rottame a fronte di 27 forni elettrici). Inoltre, la qualità del semilavorato, che ne uscirebbe, non si concilia con le caratteristiche dei prodotti di Piombino, in particolare le rotaie.

Per finire, il commissario e il ministro dello Sviluppo economico hanno confidato su ben nove manifestazioni d’interesse (ma che fine hanno fatto ?) e, non poteva mancare, su un “cavaliere bianco”, che si è ben presto dileguato. Tra galleggiamento e soluzioni miracolistiche si è arrivati ad una conclusione annunciata.

Ora la questione è cosa fare. Ci sono due punti fermi. Primo, abolire il vocabolo riconversione. L’esperienza di Bagnoli e di gran parte dei siti siderurgici dismessi al mondo ha mostrato come riconvertire il “vecchio e sporco acciaio” significa attendersi il deserto sociale ed economico. E’ possibile una riqualificazione urbanistica, ma la storia di Sesto San Giovanni (dove furono chiuse le acciaierie a metà anni ’90) insegna che ci devono essere eccezionali vantaggi di localizzazione (siamo alla periferia di Milano) e bisogna accettare di travolgere il tessuto sociale e culturale della città. Non c’è posto per i siderurgici nel terziario! Malgrado ciò, dopo vent’anni, a Sesto San Giovanni c’è ancora un’area abbandonata di 1.500.000 metri quadri.

Punto secondo, la bonifica di un sito siderurgico è una cosa seria. Richiede molti soldi e molto tempo. Non sono sufficienti 50 milioni di euro. Soprattutto non è uno sbocco occupazionale per i lavoratori lontani dalla pensione.

Non c’è che una strada: non accettare la chiusura dello stabilimento. Occorre chiedere al governo di fare ciò che avrebbe già dovuto fare: commissariare Piombino ai sensi del decreto Salva Ilva e predisporre un decreto ad hoc sulla siderurgia, che contempli una serie di misure di politica industriale per rilanciare questo settore, fondamentale per il futuro della nostra industria. Piombino deve diventare una questione nazionale. D’altra parte, nei suoi tanti annunci Matteo Renzi aveva parlato di piani di settore. Perché non cogliere la crisi di Piombino, e le difficoltà della nostra siderurgia, come occasione, ed esempio, di una nuova politica industriale?

 

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