Secondo l’articolo 2 del suo statuto, l’Accademia dei Lincei «fornisce – su richiesta e anche di sua iniziativa – pareri ai pubblici poteri nei campi di propria competenza». È dunque una sorta di Comitato tecnico scientifico in servizio permanente per governo e parlamento. Tra le materie di suo interesse c’è anche il nuovo Coronavirus. Pochi giorni fa l’Accademia ha prodotto un interessante rapporto sull’emergenza Covid-19, che ne esamina tutti gli aspetti sulla base della letteratura scientifica più aggiornata. A redigerlo sono stati due immunologi di livello mondiale come Guido Forni, già ordinario di Immunologia all’università di Torino, e Alberto Mantovani, professore all’università Humanitas e direttore scientifico dell’Humanitas clinical and research center.

NEL DOCUMENTO si esaminano le ricerche verso la scoperta di un vaccino. Di solito ci vogliono anni ma, secondo alcuni, potremmo avere un vaccino contro il Covid-19 già fra diciotto mesi. «In condizioni normali, lo sviluppo di un vaccino è una procedura lenta e complessa», spiega Forni al manifesto. «La pressione costituita dalla pandemia può accelerare le procedure. La pragmatica flessibilità delle procedure statunitensi ha già permesso di iniziare la sperimentazione umana parallelamente agli studi tossicologici, e non dopo la loro conclusione. La messa in atto di queste procedure, giustificata solo dalla diffusione del Covid-19, può ridurre di molto i tempi necessari perché vaccini di una certa efficacia siano disponibili».

La scoperta di un vaccino però non basta per renderlo disponibile a tutta la popolazione. «Per produrlo su larga scala saranno necessari certamente più di diciotto mesi», spiega Mantovani. «Ma una volta provata la sicurezza e l’efficacia si potrà fornire il vaccino almeno alle categorie più a rischio, e poi man mano che cresce la disponibilità anche alle altre».

La sicurezza del vaccino dovrà comunque essere verificata con attenzione. «Un vaccino non è un farmaco per persone ammalate che rischiano la vita quanto piuttosto un trattamento che viene somministrato a chi sta bene per prevenire il rischio di ammalarsi», si legge nel rapporto linceo. «In alcuni casi, vaccini preparati contro altri Coronavirus o virus di altro tipo hanno peggiorato la malattia o hanno indotto immunopatologie». È successo nei test sui topi durante le sperimentazioni per un vaccino contro la Sars, e potrebbe accadere anche nell’uomo.

«È POSSIBILE che alcuni meccanismi della memoria immunitaria attivata dal vaccino peggiorino la malattia: possono facilitare l’infezione virale o creare delle reazioni che la complicano», spiega Forni. «È probabile però che bastino pochi casi per identificare la presenza di questo tipo di problema e bloccare la vaccinazione con quel particolare vaccino».

Gli scienziati lavorano anche alla ricerca di una terapia. Non esistono ancora farmaci di provata efficacia, ma le sperimentazioni in campo sono molte: l’idrossiclorochina, gli antivirali, l’interferone. «Dobbiamo trovare un equilibrio tra la necessità di fare il possibile con gli strumenti che abbiamo e la necessità di operare con rigore in sperimentazioni cliniche controllate», dice Mantovani. «Io credo che farmaci come l’idrossiclorochina o gli antivirali possano essere utili e che questo potrà essere dimostrato nei trial clinici. Ma se qualche leader mondiale dichiara vinta la battaglia prima del tempo ne incoraggia l’uso selvaggio e questo provoca danni. La clorochina non è acqua fresca, ha attività immunosoppressiva e cardiotossica».

CI VORRÀ DEL TEMPO per accertare l’efficacia di questi farmaci, spiega Forni. «Solo rigorose valutazioni eseguite su molti casi ed in molti Paesi del mondo come quelle messe in atto dalla sperimentazione “Solidarity” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità potranno chiarire se qualcuna delle indicazioni iniziali ha un reale valore terapeutico in certe fasi della malattia».

PER ACCELERARE la ricerca servirebbe una collaborazione internazionale. Seth Berkley, il presidente dell’Alleanza globale per i vaccini e l’immunizzazione (Gavi), ha proposto di ispirarsi a grandi progetti come il Cern o il Progetto Genoma Umano per mettere insieme molti partner e unire le forze. «Sono stato per 5 anni nel board del Gavi quindi non posso che essere d’accordo», spiega Mantovani. «Un progetto che unisca tutto il mondo mi sembra difficile. Ma un progetto europeo di grandi dimensioni sarebbe estremamente importante. Purtroppo si sente parlare molto di Ue ma non per quello che può fare nella ricerca. Un’iniziativa europea, grazie anche alla sua tradizione di solidarietà, sarebbe importante su questo piano. In questo momento, a livello internazionale vedo che si stanno rialzando i muri. Invece non ho mai visto una comunità scientifica così aperta a condividere conoscenza e informazioni come durante l’emergenza Covid-19».