«Ho fatto tutto quello che ho potuto per guidare il partito… da quando sono diventato leader gli iscritti sono più che raddoppiati e il Labour ha proposto un manifesto serio, radicale, sì, ma molto serio e completo di costi». È puerile aspettarsi che le lame in attesa di affettare la carne vegetariana di Jeremy Corbyn si accontentino di una simile autodifesa. Ha lasciato intendere che se ne andrà all’inizio dell’anno, ma le urla perché lo faccia “ieri” sono già assordanti.

CON I CONSERVATORI a 365 con +47, il Labour a 203 (-59) il Snp che si prende quasi tutta la Scozia con 48 (+13), il quadro fa sembrare l’Urlo di Munch una vignetta di Giannelli. Non che altrove si rida. Il Catastrophe Award è ex-aequo con i libdem di Jo Swinson, la prima leader a perdere il proprio seggio dagli anni Trenta, che ha dato le dimissioni ancora prima di addormentarsi stamattina.

Benvenuti nell’ex Gran Bretagna, già sul predellino per il primo treno verso nowhere. Il capotreno accetta consigli sulla destinazione, anche se prima bisogna costruire la strada ferrata. Ah e gli scozzesi hanno già detto che non vengono.

IL PARTITO LABURISTA boccheggia al 33%, otto punti sotto il risultato del 2017 – in confronto un plebiscito – ed è meno di quanto Neil Kinnock, padre dell’ancor più resistibile Stephen, ottenne nel 1992, quando perse ai danni dei Tories di John Major. Urge la testa del leader su un vassoio, non importa certo che abbia preso più voti di Blair nella terza vittoria consecutiva del 2005. In fin dei conti, la strategia che ha portato all’oscenità delle roccaforti rosse del nord un tempo massime produttrici di cotone cadere nelle tasche cucite a Savile Row di Johnson e i suoi, è interamente di Corbyn e del suo entourage.

Da tutte le parti la litania è la stessa, e condivisibile: l’ambiguità su Brexit. Se l’errore è stato credere in un ecumenismo parrocchiale, incapace di leggere la profondità della faglia che attraversa la società britannica – tradottosi prima in un tentennamento, poi in una conversione non sentita e fuori tempo massimo alla causa del remain – allora è lecito chiedersi se non avrebbe fatto meglio a esprimere il suo euroscetticismo fin da subito, schierarsi per il leave e impugnarlo come un’arma nella lotta che lo opponeva al gruppo parlamentare centrista che ha cercato senza sosta di fotterlo: questo gli avrebbe forse fatto perdere la guerra civile interna, ma lo avrebbe vendicato alle urne non facendogli perdere i feudi rossi del nord. La realtà è che Corbyn non aveva molta scelta; era the enemy within di thatcheriana memoria, un infiltrato nel suo stesso partito. Socialismo irreale e antisemitismo c’entrano poco: il nord ex operaio avrebbe votato anche Satana pur di uscire dall’Europa. I tacchini hanno votato per il Natale, come si dice da queste parti, la slitta di Santa Johnson è pronta.

Nel Novecento ci sarebbero volute due generazioni per spazzare via il corbynismo: ma siamo proprio sicuri che nell’era dei 140 caratteri x2 cinque anni bastino e avanzino? Prima della fine della storia firmata Fukuyama, quando le due forze quasi speculari del bipolarismo perfetto regnavano ancora sorridenti sulla capitale mondiale dell’economia terziarizzata, un leader batostato come Jeremy Corbyn avrebbe dato le dimissioni ancora prima di Swinson. Era come all’oratorio, chi perde esce. Ma Jeremy si ostina a restare, almeno fin quando non si sarà deciso il suo successore. Anzi, ha l’ardire di dirsi fiero del suo manifesto elettorale, lo stesso definito da più parti “ottocentesco” (come se la giustizia sociale scadesse come la mozzarella). Ovviamente i centristi, che avrebbero preso ancora meno voti di lui – se c’è una certezza in queste elezioni è la fine del blairismo: a volte non ritornano – lo vogliono in ginocchio, a cospargersi il capo di terze vie: come vuole il puritanesimo – ma quale Marx! – alla base del Dna ideologico laburista. Per ora si sono fatti avanti John Mann, l’ex ministro blairiano David Blunkett, l’arcinemica Margaret Hodge, il furbo Sadiq Khan, ma non sono che i primi di una lunga serie.

ORA IL RING DIVENTA IL NEC, il National Executive Committe, il comitato esecutivo del partito, inizialmente ostile a Corbyn come tutto il resto dell’universo ma che era riuscito a tirare dalla sua parte. Ancora si ha il buon gusto di non avanzare candidature con la salma ancora tiepida, ma i papabili sono di certo Keir Starmer, ex ministro ombra per Brexit, la centrista Jess Phillips, e le socialiste Angela Rayner e Rebecca Long-Bailey. Interessante verifica in mezzo allo sfacelo? Osservare il decorso della malapianta dell’antisemitismo ora che l’obiettivo principale è stato raggiunto.