Coinvolgere bambini e ragazzini, docenti e genitori, in contemporanea e su uno stesso tema, con laboratori didattici per tutta l’Italia. La modalità scelta dal Festival della Cultura Creativa dell’ABI, rivolto soprattutto alle scuole, è il trionfo della scuola «attiva». Anche in questa edizione vedremo sia laboratori prossimi a una «performance», con centinaia di giovanissimi in piazza; sia piccoli gruppi al lavoro in aula, al museo, in teatro. Sarà anche l’occasione per riflettere sulla «forma» del laboratorio didattico, che sembra diffondersi ben oltre le attività scolastiche: sempre più mostre propongono attività laboratoriali connesse all’esposizione. L’apprendimento attraverso l’esperienza può esser fatto risalire a John Dewey e a Maria Montessori («Aiutami a fare da solo»); all’apprendimento cooperativo di Célestin Freinet e a figure meno note, come la milanese Giuseppina Pizzigoni. Senza dimenticare il versante della pedagogia alimentato da scuole d’arte affini alle avanguardie artistiche (la tedesca Bauhaus e la sovietica Vchutemas, non a caso presto chiuse da regimi totalitari). Scuole che insegnavano a progettare anche grazie a una pedagogia della visione, che da artisti come Paul Klee passò a sperimentatori come Bruno Munari. Ed è proprio Munari, ormai 40 anni fa, ad attivare originali pratiche e teorie educative con i laboratori «Giocare con l’arte».

È Munari a diventare simbolo dell’apprendimento attraverso il fare. Grazie al suo successo si è diffuso il concetto che il fine di un laboratorio sta nel suo procedimento, nell’imparare ad imparare, e non certo nel «prodotto finale». Con Munari il laboratorio didattico diventa lo strumento-bandiera con cui la scuola «attiva» si è opposta alla scuola «trasmissiva». Forse è venuto il momento d’interrogarsi su un tale successo e su possibili problemi o fraintendimenti che possono nascerne. Posto che il principio del «fare» come apprendimento sia diventato quasi un luogo comune, ci si potrebbe chiedere come distinguere un efficace laboratorio da uno magari «artistico» ma poco utile (migliaia di «creativi» si sono riciclati in attività laboratoriali per adulti e bambini: tutte utili?). O interrogarsi sul miglior rapporto possibile tra «attività» e «nozioni». O su quale laboratorio sia meglio demandare all’esterno e quale sviluppare autonomamente. Tenendo a mente, come ha detto Marco Rossi Doria, che «non è tutto metodo. Il metodo conta. Però bisogna sapere la sostanza per favorire processi di apprendimento.

E, anzi, più si fa scuola come laboratorium e più il docente e il gruppo dei docenti devono avere una competenza di merito». Il laboratorio si estende allora a tutta l’attività didattica, alla stessa aula o ambiente scolastico, come del resto indicavano i pionieri della scuola attiva. Ma soprattutto si estende al docente stesso, che se coinvolto in prima persona torna a compiere il percorso dell’apprendimento, fatto anche di fatica, errori e frustrazioni. Al semplice «fare» si dovrà probabilmente accoppiare (soprattutto nel caso di laboratori per istituti superiori) anche l’impegnativo raggiungimento di certe capacità (se preferite, competenze) tecniche o manuali che siano: disegnare o saper «comporre» con la geometria, per esempio. Il «fare» dovrà arrivare al «sapere come fare», altrimenti sarà solo un (magari piacevole) spreco di tempo e materiali. In un buon laboratorio la cooperazione, l’interrelazione sono non necessità ma altro importante risultato. A volte, per esempio, l’attività prevede che un singolo o un gruppo debba descrivere, con disegni e testi, il proprio progetto in modo da renderne possibile la replica da parte di un altro singolo o gruppo: un risultato di alto valore comunicativo ed etico. Uno dei tanti che educano allo spirito della ricerca, della responsabilità, della cooperazione, della soddisfazione individuale. Valori acquisiti proprio grazie ai laboratori, troppo preziosi perché non vengano meditati, consolidati e protetti come meritano.
* Fa parte del comitato scientifico del Festival della Cultura Creativa. Ha scritto romanzi, saggi, spettacoli, sceneggiature. È autore, tra gli altri, de L’arte anomala di Bruno Munari, (Laterza 1981) e di Bruno Munari, 1986 co-edito in Italia, USA, Inghilterra e Francia da Idea Books, MIT Press, Lund Humphries, Philippe Sers,che sarà riedito da Corraini quest’anno.