Da più di un decennio a Yona Friedman sorride la fortuna critica. È questo in parte uno dei segni (insieme alla ripresa storiografica dei movimenti radicali degli anni Sessanta) dell’adesione che gode in questo momento il pensiero critico sull’architettura visto come opzione al formalismo del nuovo stile internazionale.

LE RIFLESSIONI dell’architetto ungherese (Budapest, 1933, ma naturalizzato francese nel 1957) sono nondimeno una spia anche d’altro e che non riguarda solo il mestiere dell’architetto. Forse, mai come nella fase storica che stiamo attraversando c’è l’urgenza di mettere in discussione i modelli del nostro vivere con gli altri, riconsiderare le nostre relazioni con culture e società diverse dalla nostra. Il saggio di Friedman Come vivere con gli altri senza essere né servi né padroni (a cura di Franco Buncuga, Elèuthera, pp.183, euro 15) affronta questo tema attraverso un ragionamento logico e stringato.

LA TESI che si legge ma anche si vede, perché illustrata con un linguaggio a fumetti, è che ogni «struttura sociale» si compone di gruppi dei quali è possibile disegnare matematicamente una «mappa». Sulla base delle «influenze» che all’interno di un gruppo ogni singolo membro esercita sugli altri, li definiamo «egualitari» o «gerarchici». Ciò che li distingue l’uno dall’altro è il numero di soggetti che li costituiscono e che li tengono in equilibrio per evitare che implodano. Friedman usa l’immagine eloquente della Torre di Babele per farci comprendere quanto assurdo sia l’assurdità per l’umanità vivere in comunità grandi e affollate (megalopoli) nelle quali, per ragioni biologiche, è impossibile la «comunicazione globale».

I COSTRUTTORI della Torre a un certo punto, senza che Dio intervenga, si fermano perché il monumentale edificio collassa. «L’organizzazione della Torre – scrive Friedman – si blocca a causa dell’incepparsi della comunicazione». Da qui l’indicazione di dirigersi verso il cosiddetto mondo povero. Il «mondo povero» friedmaniano non è uno spazio depauperato bensì solo bene organizzato, costituito da più misurate entità locali nelle quali il lavoro è «meno parcellizzato» e tutto è pensato affinché il superfluo sia ridotto al minimo e reso massimo lo scambio comune di beni e servizi. Nel 1975, quando il saggio è pubblicato in Francia, siamo negli anni della crisi petrolifera conseguenza della Guerra del Kippur. Da noi, due anni dopo, Berlinguer, nel teorizzare la politica dell’austerità, dichiarerà che solo «nelle società in ascesa vanno insieme la giustizia e la parsimonia».

È DIFFUSA, insomma, in quel decennio la coscienza che le risorse del pianeta debbano essere utilizzate con responsabilità senza con questo minare le prospettive di emancipazione e di progresso. Tuttavia sarà nel 2003 che Friedman con il saggio L’architettura di sopravvivenza. Una filosofia della povertà (Bollati Boringhieri, 2009) individua nelle bidonville i «laboratori del futuro». Lì è un fatto reale, l’autocostruzione, l’autopianificazione, la resilienza di fronte alle aggressioni e catastrofi naturali, il superamento dell’uso del denaro in favore del baratto.

SONO QUESTI solo alcuni degli elementi del pensiero irriverente e radicale dell’architetto franco-ungherese che, come ha precisato Manuel Orazi nell’ introduzione al saggio, si pongono come antidoto a ogni forma di paternalismo politico e architettonico. Quello che nel promuovere luoghi che sono l’opposto del vivere civile e ordinato degli uomini immaginato da Yona Friedman rimanda ogni giorno la sua l’utopia realizzabile.