Si succedono in questi giorni le dichiarazioni con cui sia il Ministro Giannini sia, sulle sue orme, il Presidente del CUN, Andrea Lenzi e Dario Braga, invocano l’abolizione dei concorsi per i docenti universitari, a favore di una valutazione ex post dell’operato dei reclutati. Un’abolizione simile ad una panacea, una specie di zattera a cui aggrapparsi per sfuggire al gorgo delle baronie universitarie e portare nell’Università il merito. E’ possibile evitare i concorsi per diventare professori e ricercatori? Si otterrebbero davvero risultati apprezzabili? E soprattutto, perché farlo?

Partiamo dall’ultima domanda: da molti anni si aprono periodicamente polemiche sulla correttezza dei concorsi universitari. Un certo numero di casi riprovevoli è servito ad accreditare la fantomatica immagine dell’ “ordinario a fine carriera che non ha scritto una riga in vita sua”, forgiata da Roberto Perotti, e di un’accademia di fannulloni promossi per clientele e legami familiari. Lo svolgimento dell’ASN, che non è una procedura concorsuale e che soffre di difetti strutturali derivanti da un’architettura mal congegnata a da criteri e parametri ancor peggio disegnati, ha nuovamente riaperto il dibattito sulle procedure di selezione.

Semplificando molto, si potrebbe dire che la situazione stia in questi termini: siccome i concorsi in Italia talvolta non funzionano bene, aboliamo i concorsi. Come dire, siccome agli esami c’è chi copia, aboliamo gli esami.

Una tesi popolarissima, peraltro, perché i concorsi sono procedure selettive e a nessuno piace ritrovarsi escluso. La pietanza che ora i policy makers vogliono ammannirci prevede un’abilitazione semplificata e chiamate libere da pastoie concorsuali. Semplificare l’ASN andrebbe benissimo. Il punto è cosa si intenda con “semplificata”: la concessione a pioggia del titolo? Di che titolo? Una normale patente, non certo per guidare una Ferrari, Giannini dixit.

Quindi, siccome i concorsi non funzionano a causa dei “baroni”, lasciamo fare ai “baroni” quello che vogliono, ovvero concediamo libertà di chiamata su bacini di abilitati a pioggia, affidandoci alla foglia di fico della “valutazione ex post”. Ma qualcuno ci vuole spiegare come dovrebbe funzionare questa “valutazione ex post”? E, soprattutto, qualcuno crede davvero a questa barzelletta? Il “liberi tutti” vagheggiato in questi giorni, se dovesse concretizzarsi, servirà solo a peggiorare il livello della docenza italiana e la valutazione ex post affidata, immaginiamo, a indicatori quantitativi elaborati da ANVUR sarà facilmente aggirata da chiunque abbia un minimo di sale in zucca. I coautoraggi sono un’arma potente, e i cartelli citazionali sono un gioco da ragazzi.

Alla fine, ci troveremo con una bella selezione inversa, che premierà gli individui e i settori più abili nell’orchestrare comportamenti opportunistici e abusivi.

Peraltro, allo stato attuale, una valutazione negativa ex post colpirebbe l’Ateneo e solo in modo limitato il singolo. Come dire, paga Pantalone: se si assume un soggetto poi valutato negativamente non sarà lui a subire conseguenze, ma l’ateneo, il dipartimento e così via. Siamo davvero sicuri che sanzioni irrogate alle strutture costituiscano un freno sufficiente a impedire il reclutamento di soggetti di scarsa qualità?
Ma non è solo questo il punto.

Oggi i docenti e i ricercatori universitari di ruolo appartengono al personale pubblico non contrattualizzato. Le Università sono considerate pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art.1, comma 2, del d.lgs. 165/2001.

Perciò il reclutamento della docenza universitaria di ruolo, in quanto accesso al personale pubblico, avviene sulla base di un pubblico concorso.

Come afferma una costante giurisprudenza costituzionale, le amministrazioni pubbliche per la provvista del proprio personale devono infatti, in via ordinaria, ricorrere al pubblico concorso, in base a quanto chiedono gli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione.

Sempre secondo la giurisprudenza costituzionale, il concorso pubblico consiste non in una generica selezione, ma in una selezione che rispetti determinate condizioni. Innanzi tutto, la natura comparativa della procedura e la sua idoneità ad accertare il possesso delle competenze necessarie ad esercitare le funzioni corrispondenti allo specifico ruolo che si va a ricoprire. Dunque, nulla che assomigli alle procedure di abilitazione scientifica nazionale né attuale né tanto meno nella forma futura immaginata dal Ministro e dallo stesso CUN.

Solo con una procedura comparativa di selezione pubblica, idonea ad assicurare il reclutamento dei migliori, si garantiscono l’imparzialità della pubblica amministrazione e il suo buon andamento, anch’essi principi enunciati nell’art.97 Cost.

Le eccezioni, consentite dallo stesso art.97 Cost., devono, secondo la giurisprudenza costituzionale, essere stabilite dalle leggi in modo rigoroso e solo per soddisfare provviste di personale in percentuali numericamente molto limitate o perché si tratta di esercitare funzioni peculiari o perché vi sono particolari necessità alle quali fare fronte. In quest’ultimo caso, è comunque necessario accertare in modo idoneo le competenze, prima dell’accesso, non solo dopo.
Il principio generale, insomma, è quello del pubblico concorso.
Alla luce di tutto ciò, vorremmo fare una domanda a chi sostiene l’opportunità di abolire i concorsi per reclutare i docenti universitari: dietro la proposta si nasconde l’intenzione di far uscire il personale docente universitario dal personale pubblico?

Si intende insomma promuovere una sorta di privatizzazione della docenza? Una contrattualizzazione del rapporto di lavoro del docente universitario? Un suo assoggettamento alla normativa di diritto privato?

Della fuoriuscita dei docenti dal personale pubblico non contrattualizzato si è a lungo parlato nel passato. Una tesi che assomiglia a un fiume carsico che appare e scompare. È questa tesi che viene riproposta, dietro il velo della popolare “abolizione dei concorsi” o si pensa ad altre soluzioni, compatibili con il quadro costituzionale e con la giurisprudenza costituzionale? Oppure si vuole fare uscire tout court le università dal novero delle pubbliche amministrazioni?

Tutto questo prefigura un sistema che in Italia mai è stato sperimentato e le cui prime sperimentazioni in altri ambiti (la dirigenza pubblica) hanno dato esiti nefasti. Forse sarebbe bene riflettere prima di prendere decisioni affrettate. E sarebbe bene che anche i docenti universitari prendessero coscienza di cosa si può celare dietro certi facili slogan.

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