Bella e impossibile. La relazione svolta ieri alla Camera dei deputati sull’attività del 2016 dal Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro.

Bella perché lo svolgimento del discorso è efficace e in gran parte condivisibile. Impossibile, per contro, data l’inefficacia futura di un armamentario giuridico pur assai evoluto per il suo tempo.

Non parliamo tanto della legge generale di cui si è appena celebrato il ventennale (l. 675 del 31 dicembre 1996), quanto del complesso dispositivo regolamentare che ha scolpito in questi anni grammatica e sintassi del capitolo privacy. E fu proprio il padre e precursore di un approccio moderno, Stefano Rodotà, ad avvertire fin dall’inizio dei rischi e dei limiti di approcci meramente normativi.

Ma allora, al confronto del conflitto acre e «senza prigionieri» di oggi, il contesto era ancora inscritto nella polarità «pubblico-privato», laddove ricorreva innanzitutto il giusto principio della riservatezza.

Dal chiaroscuro del paesaggio siamo entrati direttamente nel museo degli orrori, mascherati di progresso tecnologico.

Il cosiddetto «Internet delle cose» significa in pratica uno stuolo inaudito di telecamere, che Luchino Visconti o Stanley Kubrick si sarebbero sognati; o una profilazione digitale permanente nelle nostre identità, tracciate ovunque e ben al di là dei soggettivi voleri o desideri; o un mercimonio inaudito di Data, Big o meno che siano.

Il tutto inghiottito – come nei film di 007, prefiguranti e meno glamour di quanto si pensi – dall’astronave cattiva degli Over The Top, i veri attuali padroni delle ferriere. Cui bisognerebbe, per lo meno, far pagare seriamente le tasse; e che andrebbero costretti a disvelare la formula magica degli algoritmi. E l’abnorme bolla spionistica, messa in atto e controllata da centri avulsi da qualsiasi dialettica civile, va sgonfiata.

Ora, opportunamente, Soro si appella alla «resilienza informatica e quella della democrazia», perché il quadro è immerso in una terribile violenza simbolica, che assume i caratteri di quella fisica quando la rete si popola di cyberbulli e di oltraggi contro i soggetti deboli.

Amaro è stato il cenno a simili fenomeni degenerativi da parte della presidente della Camera Laura Boldrini, intervenuta con un saluto non formale, bensì centrato sul tema dei diritti e dei doveri nella e della rete, al quale ha dedicato un’attenzione assidua fin dall’inizio della legislatura.

Si è parlato delle cyberguerre, elemento chiave di quella deflagrazione mondiale citata spesso dall’inascoltato Papa di Roma.

Sono cresciuti del 117 per cento gli attacchi informatici riconducibili ad attività di cyberwarfare, mentre Wanna Cry ha ingenerato allarme nell’intero villaggio globale.

Del resto, Donald Trump ha preferito divaricare nettamente la linea sulla tenuta dei dati, rompendo con i più ragionevoli approcci europei. Non a caso, poi, l’ultima campagna elettorale degli Stati Uniti ha visto il protagonismo degli hacker, russi, almeno a quanto si sa. E pure la Cina è vicina.

Non potevano mancare, ovviamente, argomenti sensibili come il diritto all’oblio, le fake news, l’odio spalmato in rete. O il valore e il limite dei recenti provvedimenti governativi sull’accesso agli atti della pubblica amministrazione: tra il pericolo di intrusione nella sfera personale e l’ostracismo della burocrazia.

Inoltre, Soro ha toccato i nodi più sensibili tra i molti sensibili, la sanità e il processo «mediatico».

Il panorama è completo e il plauso è meritato. Sul che fare, però, siamo solo ai prolegomeni.