«Le crisi si consumano sempre al rallentatore. Possono durare anni. Le catastrofi arrivano sempre all’improvviso, colgono alla sprovvista».

TRA I TANTI, POSSIBILI MODI di evocare il passato per tentare di collocare in un quadro storico coerente le ombre cupe che incombono sul presente, Siegmund Ginzberg ha scelto quello che a prima vista potrebbe apparire come il più impervio e stridente: raccontare con lo sguardo ben piantato sull’attualità, del nostro paese ma non solo, l’ascesa al potere dei nazisti nella Germania del 1933. Indagando i tempi lunghi della crisi alla ricerca dei segnali che possano annunciare la svolta improvvisa, il punto di rottura capace di preparare il terreno alla catastrofe. O, detto in altre parole, il modo in cui il malessere diffuso può trasformarsi in una deriva autoritaria e nella fine della democrazia. Negli anni della Repubblica di Weimar, nel cuore stesso dell’Europa democratica e, visto che spesso «gli incubi del passato scalciano nel futuro», ancora oggi.

UN OBBIETTIVO AMBIZIOSO che Ginzberg, storica firma dell’Unità, a lungo inviato ai quattro angoli del mondo, traduce (in Sindrome 1933, Feltrinelli. pp.184, euro 16, che sarà presentato oggi alle 18 a Roma presso la Fondazione Ugo La Malfa, Via di Sant’Anna 13) attraverso uno straordinario «romanzo della crisi», dove la rigorosa ricostruzione storica di un’epoca, delle sue contraddizioni e dei suoi protagonisti, sembra assumere il timbro, e il fascino, di una trama letteraria. Quasi ad evocare l’alter ego narrativo del Christopher Isherwood di Addio a Berlino (Adelphi) che descriveva il proprio itinerario alla scoperta del clima torbido e minaccioso della capitale tedesca di allora nei termini di «io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto», Ginzberg ricostruisce passo dopo passo il tramonto della democrazia di Weimar e l’ascesa del fascismo. E lo fa con una sana scelta di campo, volutamente di parte, privilegiando «tra i fatti e gli argomenti quanto può richiamare al lettore vicende, cronache e polemiche della nostra attualità». Perché, come spiega, «temo il presente che imita il passato inconsapevolmente, senza volerlo, magari senza neanche accorgersene. Ecco perché sono andato in cerca di analogie».

CIÒ CHE EMERGE da questa immersione in quegli anni difficili, considerati per molti versi come un sorta di «laboratorio» politico e sociale della modernità occidentale – come ribadito anche nella nuova edizione di La Germania di Weimar. Utopia e tragedia di Eric D. Weitz (Einaudi) -, non è tanto il rischio che il passato torni a ripetersi nella medesima forma, ma che le analogie, reali o apparenti, con quella stagione rivelino qualcosa dell’abisso sul quale rischia di protendersi oggi la democrazia. A questo riguardo, l’incedere di Ginzberg è molto netto: «Ci sono, in molti paesi, leader poco raccomandabili, arrivati al potere sull’onda di un voto popolare. È ridicolo pensare di poterli esorcizzare paragonandoli al Duce e al Führer. Non sono un fautore del metodo che il conservatore Leo Strauss definiva “reductio ad hitlerum”. Oltre ad essere fallace sul piano logico e storico, è pure controproducente».

INFATTI, PRECISA L’AUTORE di Sindrome 1933, «non mi fanno paura i quattro imbecilli che inneggiano al passato fascista o nazista (…) Mi preoccupa una specie di coazione a ripetere involontaria, il riaffacciarsi di dinamiche, meccanismi che avevano portato al disastro la Germania di Weimar e con lei l’intera Europa». Da questo punto di vista, il passato interroga il presente attraverso le parole di Georges Simenon, inviato nel 1933 a Berlino e nell’Europa centro-orientale da Voilà, il settimanale fondato da Gaston Gallimard, che intervistò lo stesso Hitler; lo studio del filologo Victor Klemperer sulla formazione, e il consenso, del linguaggio totalitario; l’analisi di Siegfried Kracauer sul mondo degli impiegati berlinesi degli anni Trenta; il reportage che Joseph Roth realizzò sugli ebrei orientali e che si è tramutato in un’ultima celebrazione di una grande civiltà spazzata via dalla Shoah.

PER GINZBERG, che costruisce la sua ricerca a partire da una vasta messe di documenti storici, ogni riflessione «dentro» il passato assume l’accento di un quesito posto al presente, e in forma spesso diretta. Perché questo minaccioso déjà vu può «aiutarci a capire dove stiamo andando e, forse, a non commettere gli stessi errori».