In un momento così difficile, quando bene che vada, ai più fortunati, è imposto lo strazio del dolore altrui, può tornare utile interrogare l’arte. Guardare ai fenomeni più interessanti emersi nella seconda metà del Novecento, quelli, soprattutto, che possono dirsi generativi della novella cultura europea, e aderire, per empatia e senza calcoli, a quel meglio di noi stessi che essi sono in grado di svelare.

Così con l’arte di Giuseppe Penone del quale in questi giorni (e fino al 16 luglio) è possibile vedere una mostra stupefacente curata da Massimiliano Gioni al Palazzo della civiltà italiana dell’EUR a Roma nello spazio espositivo Fendi e un’altra allestita nella sede romana della galleria Gagosian (fino al 15 giugno) tutta dedicata alle opere più recenti (alle due mostre si accede gratuitamente).

La mostra promossa da Fendi si intitola Matrice, dall’opera più impressionante tra le quindici che include, una di quelle dove il cimento di un certosino lavoro manuale si traduce in una immagine di vaste proporzioni provocando uno stupore che non insospettisce perché ha l’aspetto di qualcosa di estremamente naturale.

Penone, classe 1947, il più giovane tra i protagonisti dell’Arte Povera, come altri artisti della sua generazione da sempre ha investito e dato visibilità al processo con il quale giunge alla definizione delle sue opere, scongiurando l’idealismo (la certezza del risultato) e sfidando gli accidenti della vita con la consapevolezza che ogni cosa appartenga a un insieme intessuto di relazioni. Nel suo caso però, a differenza di molti altri artisti di area concettuale, il processo non è esibito con l’unico fine di autoproclamare la propria rilevanza, ha una sua logica ed è quella di aderire alla natura dei materiali.

Senza torsioni del tronco

Detto questo, torna utile raccontare Matrice ripercorrendo le tappe che hanno portato alla sua realizzazione auspicando di poter intravedere attraverso di esse, il senso del lavoro.
Penone ha scelto un abete alto circa quindici metri e ne ha sezionato in due il tronco senza staccarne i rami. Fa una certa impressione immaginare questo lavoro condotto artigianalmente nello studio dell’artista.
La scelta dell’abete è dovuta al fatto che quest’albero della famiglia delle conifere cresce in maniera regolare, senza torsioni del tronco. Per la stessa ragione, sono travi di abete o di larice (anche il larice è una conifera) quelle che Penone utilizza per realizzare i suoi Alberi. Sceglie uno degli anelli di crescita visibili nella sezione della trave e, seguendone la traccia, scava nel legno sino a riportare alla luce l’albero come era in un periodo precedente a quando la pianta è stata recisa.

Di questi Alberi, tra le opere più note dell’artista, i cui primi esemplari del 1969 sono stati la felice invenzione dei suoi esordi, ne sono esposti alcuni esemplari anche nella mostra all’EUR, tra i quali uno ricavato, invece che da una trave uscita dalla falegnameria, da una antica trave proveniente da un tetto.

Ma torniamo a Matrice. Il processo con il quale è stata realizzata è in un certo senso simile e opposto a quello impiegato per gli Alberi. Penone è partito dall’albero e non dalla trave e, dopo aver scelto un anello di crescita, seguendone la traccia, ha scavato l’interno del tronco. Ha svuotato l’albero lasciando intatto solo il legno degli ultimi anni e con esso la pelle, ossia la corteccia con i rami attaccati. Così lavorate, le due metà dell’abete sono disposte in orizzontale con i rami che fanno da sostegno e che sembrano le gambe di un gigantesco animale. Un animale che pare muoversi per l’effetto che creano gli stessi rami, alcuni dritti verso il suolo, altri sollevati.

Dalla nostra altezza, vediamo agevolmente l’interno scavato del tronco, di un colore chiaro e luminoso al contrario della corteccia e dei rami che sono scuri. La superficie è finemente levigata e dolcemente mossa, leggermente concava o convessa secondo lo sviluppo biologicamente difforme che l’albero ha avuto nelle diverse parti del tronco. Sorprendente è lo scavo quando si insinua nell’innesto dei rami e si allarga per poi restringersi a imbuto, riproducendo, al negativo, il rigonfiamento visibile all’esterno. Lì diventa un’esile fessura che penetra nel cuore della materia senza che se ne scorga la fine.
Ma l’opera riserva ancora una sorpresa.

A metà circa di una delle due sezioni è incastrato un corpo cilindrico lungo poco meno di un paio di metri. Una metà non è visibile perché aderisce allo scavo. La parte visibile è segnata da rigonfiamenti. È un bronzo, rifinito con una patina opaca e scura, ricavato da una porzione dell’albero scavato che è servito da matrice.

In direzione della luce

In altre parole, servendosi di una tecnica antica della scultura che permette di invertire l’interno con l’esterno – il calco e la conseguente fusione – Penone suggerisce come un albero possa sorprendentemente somigliare a un essere animale. Non a un determinato animale, che sarebbe una visione parziale riferibile a una particolare somiglianza, e neanche per quanto attiene alla sola morfologia: le affinità, infatti, che egli suggerisce investono anche la sfera del comportamento.

In Matrice, i rami cresciuti in direzione della luce, che per la pianta è fonte di vita, somigliano agli arti con i quali le creature animate si muovono e grazie ai quali sopravvivono, mentre i rigonfiamenti che proteggono i tracciati dove scorre la linfa somigliano alle mammelle, nutrimento primo di ogni mammifero. L’interno del tronco ha un colore delicato come quello dei tessuti interni dei corpi, la corteccia è scura come l’epidermide.

Quello che in definitiva sostanzia il lavoro di Penone è un pensiero dai risvolti etici, maturato nella seconda metà degli anni sessanta, in un momento di elevata sensibilità politica, e dettato, è l’autore a dichiararlo, dalla «volontà di un rapporto paritario tra la mia persona e le cose». Un pensiero che Penone affida interamente alla scultura caparbiamente volendo che sia la sua esclusiva presenza a dimostrarne la legittimità.

Equivalenze è il titolo della mostra da Gagosian. Due cose che si equivalgono non sono uguali, ma hanno uguale valore. Come fa Penone a dimostrare attraverso la scultura che nel mondo esistono tante cose diverse che hanno tutte lo stesso valore?

Saltano agli occhi due costanti, il processo del calco o dell’impronta e la morfologia della biforcazione.

Le ritroviamo in Matrice e in tutti gli altri lavori esposti all’EUR – da Soffio di foglie a Pelle di grafite, da Essere fiume a Foglie di pietra, da Spine d’acacia a Indistinti confini – come anche nelle due opere in bronzo che danno il titolo alla mostra di Gagosian, ottenute accostando il calco di un albero di alloro e quello di un corpo femminile, segnato il primo dalle ramificazioni e il secondo dalle articolazioni.

Calco e impronta sono il risultato di un’azione nel corso della quale differenti materie o corpi entrano in contatto modificandosi a vicenda.

Il bronzo prende la forma del vegetale, il cumulo di foglie viene modellato dal corpo di Penone che su di esso si stende (Soffio di foglie), l’impronta della pelle segna (Pelle di grafite), persino un materiale duro come la pietra cambia forma modellato dall’acqua (Essere fiume).

Contatto con l’altro

Penone ci consegna l’immagine di un esistente duttile – governato da quel principio di fluidità sul quale un’intera generazione ha fondato la propria fiducia nel cambiamento – ma soprattutto suggerisce come ogni cosa e corpo si conformi nel contatto con l’altro. La coscienza di questa dinamica infonde una fiducia democratica. Delinea un insieme partecipato da entità diverse necessariamente consapevoli le une delle altre, una condizione simile a quella proposta dai più recenti modelli scientifici o colta da Jean-Luc Nancy nel concetto di Essere singolare plurale. Penone, dall’anno fatidico delle sue prime apparizioni pubbliche, il 1968, la esprime attraverso la sua originale interpretazione dell’antica tecnica scultorea del calco.

Il calco, come anche l’impronta, non sembrano interessare Penone per la fedeltà o la verità con la quale riproducono o traducono il modello. Si potrebbe dire, al contrario, che egli sia interessato a rilevare gli accidenti, talvolta inaspettati, che il contatto genera. Tra questi, la morfologia della biforcazione. La biforcazione scongiura l’inerzia, smentisce il progetto, contempla l’alternativa. La cultura del Novecento l’ha evocata in contrapposizione al determinismo storico o in difesa di ciò che è minoritario o diverso, dai racconti di Borges al pensiero di Heidegger, dalle ferite giudicate da Bataille un viatico di apertura verso l’altro sino alle pratiche della decostruzione. Penone la osserva in natura nei rivoli in cui si divide la vena d’acqua che sgorga dal terreno, nelle cinque dita delle mani, nei rami degli alberi. La rileva con il calco oppure la traccia scavando intorno alle vene del marmo di Carrara o ripercorrendo con la grafite i solchi della pelle.

A Largo Goldoni

Talvolta fa del suo alveo una presa, come vedremo nell’opera Foglie di pietra che la maison Fendi dona alla città di Roma e che a breve sarà installata a Largo Goldoni lungo la Via del Corso, dove i calchi in bronzo di un olmo e di un noce, solleveranno, incastonata tra i rami, una grande pietra (l’impianto è previsto per il prossimo mese di maggio). Una miriade di biforcazioni sono i rami del grande albero ora in mostra sulla scalinata del Palazzo della civiltà italiana, quello che a Roma chiamano il Colosseo quadrato, l’edificio voluto da Marcello Piacentini come quinta di una delle arterie principali dell’EUR. Nella differenza tra l’impaginato ordinato della facciata di questo bell’esemplare di architettura del Ventennio (tra i progettisti figura Ernesto Lapadula) e l’Albero di Penone si palesa il divario storico. Con soddisfazione potremmo riconoscerci nell’elemento naturale dell’albero, la scultura svettante che l’artefice ha fatto di bronzo perché la patina di questo metallo ha i colori dei vegetali, un tronco senza fronde, ma con tanti rami, tutti ancorati al corpo centrale, ma ognuno cresciuto nella direzione della luce disegnando una diversa traiettoria.