Il piccolo Giovanni della fiction La guerra è finita (trasmessa per quattro lunedì su Rai1) che non riesce più a parlare dopo le atrocità che aveva visto, nella realtà era un piccino di tre anni e si chiamava Wofke. Era nato tra i partigiani nella foresta e si trovava a Sciesopoli mentre la madre ammalata era stata ricoverata in un ospedale romano.

La fiction liberamente ispirata al libro di Aharon Megged Il viaggio verso la terra promessa ripercorre la storia di Sciesopoli ebraica a cui, lo scorso ottobre, la comunità di Selvino ha dedicato il Mu.Me.S.E, museo della memoria ospitato all‘ultimo piano del municipio. «Sciesopoli fu un luogo dove i più piccoli orfani della shoah scoprirono il loro futuro» dichiara Marco Cavallarin, storico ed esperto di ebraismo, il primo insieme alla moglie Patrizia ad aver dato valore alla storia di quella ex colonia e tra i più attivi nel mantenerne la memoria «è stata una storia di speranza, lì dentro non c‘era spazio per morte o distruzione. Per questo il Museo che abbiamo realizzato è privo di retorica, è una storia che si racconta da sé». Sciesopoli venne realizzata prima della guerra come luogo di villeggiatura per i giovani dell‘élite fascista milanese. Era un edificio enorme, con un ampio parco, palestre, piscina, dormitori, refettori, sala cinema, infermeria. I profughi ebrei che arrivavano a Milano erano molti, prima venivano accolti in via Unione, poi indirizzati in via Cantù dove, vicino al circolo ufficiali dell’esercito della Gran Bretagna, funzionava l’ufficio clandestino di Ada Ascarelli Sereni e di «Alon», Yehuda Harazi, che organizzavano le partenze clandestine degli ebrei verso la Palestina mandataria. In attesa che fosse pronta una nave per il loro viaggio venivano avviati al campo di Magenta- Boffalora ed in altri ancora. Dopo il 25 aprile del 1945 l’amministrazione di Sciesopoli venne affidata a un’Opera Pia e al CLN. Nel settembre di quell‘anno Raffaele Cantoni, presidente della Comunità Ebraica di Milano, Moshe Ze’iri, membro della Kvutzat Schiller e della Compagnia Ingegneri dell’Esercito Britannico Solel Boneh, e Teddy Beeri, a sua volta membro della Solel Boneh, chiesero Sciesopoli al CLN, al sindaco di Milano Greppi e al prefetto Lombardi. Così in quella colonia montana, poco fuori Selvino nelle prealpi bergamasche, tra il 1945 e il 1948, arrivarono ben 800 piccoli orfani per lo più ritrovati intorno ai campi di concentramento da poco liberati, nelle haksharoth nate non lontane dai campi, nelle foreste e in orfanotrofi, conventi e monasteri dove erano stati nascosti sino ad allora. Bimbi estranei l’uno all’altro che parlavano polacco,yiddish, ungherese, rumeno. Una babele di lingue nella quale gli istruttori Moshe Ze’iri, Matilde Cassin, Euhenia Cohen e Reuven Donat dovettero districarsi.

All’inizio erano una quarantina ma il loro numero aumentò ben presto. Arrivavano in camion, alcuni a piedi da soli, altri col fratellino o la sorellina. Nell’estate del 1946, 250 bambini partirono dall’haksharah di Kielce e tre mesi dopo arrivarono a Selvino guidati da Hemda Auerbach. Erano magri, scheletrici, spesso malati. Alter, 16 anni, nato in un piccolo villaggio dei Carpazi, catturato dopo aver vagato per le foreste, aveva lavorato nel campo di concentramento di Koenigskirchen dove scavava le fosse per le migliaia di cadaveri di ebrei. Aronne, 13 anni, col fratellino di 9, proveniva dalla Transnistria dopo aver vagato a piedi ed in treno tra la Bessarabia, la Romania, l’Italia. Arrivò Malkale, 13 anni, unica sopravvissuta della sua famiglia nel ghetto di Munkacz dopo essere sopravvissuta ad Auschwitz. Arrivarono i fratellini Adam e Berrik che erano stati nel ghetto di Lodz, ad Auschwitz, Mauthausen e a Gusen. Mila, invece, parlava solo russo, ed era uno degli otto ebrei sopravvissuti ad Odessa dopo lo sterminio. Quando arrivò a Nonantola gli regalarono una fisarmonica e, anziché emigrare negli USA, rimase in Italia.

Agli occhi dei bambini Sciesopoli sembrava un castello. Ad ognuno di loro veniva assegnato un letto ed un armadietto dentro il quale mettevano le poche cose che avevano: un paio di calze rotte, monete, un temperino, una camicia rattoppata.
Durante il giorno giocavano e lavoravano, seguendo le regole dei Kibbutz, alla sera intonavano canti ebraici. Quando ad Avramele, 7 anni, che per 3 aveva vissuto in un bunker infestato da pidocchi, venne assegnato un lenzuolo pulito, lo tolse subito perché aveva paura di scivolare e cadere nel pavimento. I più grandi badavano ai più piccoli, al mattino, a mezzogiorno e alla sera suonava la campanella del pasto. In realtà non avevano molto da mangiare tanto che i piccoli temevano spesso di rimanere senza pane. Un giorno l’economa della casa trovò del pane ammuffito sotto il materasso di un bambino. Il pane era razionato e se uno di loro veniva punito per aver preso un pane in più dal cesto si alzavano tutti ed abbandonavano la sala da pranzo per protesta.

Dopo il ´48 Sciesopoli è prima diventato luogo di ricovero per bambini disagiati, più tardi anche rifugio temporaneo per nuovi profughi vietnamiti. Nel 1983 venne abbandonata e negli ultimi mesi, grazie all’interessamento della Presidenza della Repubblica, il MIBACTè riuscito a far eseguire lavori per la messa in sicurezza del tetto.

In quanto a quegli ex bambini una volta arrivati in Israele diedero vita ad alcuni kibbutz. I più importanti a sud e a nord: il kibbutz Rosh-ha Nikrà, al confine col Libano, e Tzeelim, nel deserto del Negev.

Nel 1983 sono giunti in una settantina, nel 2010 è stato il turno di Naftali Burstein, nel 2011 di Nitza Sarner, figlia di Moshe Ze’iri, nel 2012 di Miriam Bisk. Nel 2015, 70° anniversario di Sciesopoli, molti sono arrivati con le famiglie da Israele, dagli USA, dal Canada, dalla Gran Bretagna. Il prossimo maggio torneranno, provenienti dal Canada e da Israele, per visitare il Museo appena inaugurato.