Gli ultimi sviluppi nel caso dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone (nella foto reuters), trattenuti in India da quasi due anni con l’accusa di omicidio di due pescatori indiani scambiati per pirati, fanno riemergere la preoccupazione nazionale per il rischio di applicazione della pena di morte nei confronti dei due soldati. Si tratta però di un abbaglio che nonostante le svariate rassicurazioni – sia da parte indiana, dal parlamento e dal ministro degli Esteri Khurshid, che da parte italiana con l’inviato speciale De Mistura – dopo mesi fatica ad essere archiviato dalla stampa nostrana. Su queste pagine, a più riprese, abbiamo specificato che la pena capitale, in India, viene applicata solo in casi eccezionali («rarest of the rare», 4 volte negli ultimi 20 anni). E l’incidente che ha coinvolto la Enrica Lexie, secondo le rassicurazioni di Delhi, non rientra nella casistica.
Il malinteso continua a tenere banco per la complessità legale e burocratica del caso, affidato dalla Corte Suprema a una delle polizie federali, la National Investigation Agency (Nia). In settimana si è tenuto a Delhi un vertice tra il ministro della Giustizia, il ministro degli interni e il ministro degli Esteri, con l’obiettivo di definire come la Nia debba procedere alla formulazione dei capi d’accusa davanti alla Corte speciale che dovrà giudicare Latorre e Girone. Il problema risiede nel vincolo che l’agenzia avrebbe a livello giuridico, obbligata a rifarsi al Sua Act, la legge che permetterebbe – secondo il sistema legale indiano – di reclamare la giurisdizione del caso ma che, all’articolo tre, obbliga l’accusa a richiedere la pena di morte nel caso di omicidio in mare.
Secondo indiscrezioni pubblicate dall’Hindustan Times, la Nia sarebbe pronta a procedere chiamando l’applicazione del Sua Act, eventualità che in Italia è stata percepita come volontà di applicare la pena di morte. Ipotesi esclusa totalmente dall’inviato De Mistura – «è inapplicabile» – che ha anche lamentato il ritardo della Nia nel formulare i capi d’accusa, attesi per lo scorso 8 gennaio e rimandati alla fine del mese. L’India si ritrova quindi in un empasse politico-burocratico: da un lato non è intenzionata a rinunciare all’estensione della propria sovranità (reclamata, secondo le leggi nazionali, fino alle 200 miglia nautiche della zona economica esclusiva), ma dall’altro non può venir meno alle rassicurazioni sull’inapplicabilità della pena di morte date a Roma e, soprattutto, al principio del «rarest of the rare».
Per uscire dal vicolo cieco, riporta la stampa indiana, la Nia potrebbe chiedere l’applicazione del Sua Act e la non applicabilità della pena di morte, rifacendosi alle dichiarazioni del ministro Khurshid rilasciate all’assemblea parlamentare federale. Una decisione delicata che, secondo il ministro Shinde, sarà presa all’inizio della prossima settimana.