Mentre il canto del muezzin chiama i fedeli alla preghiera, la macchina da presa inquadra una mezuzah – l’astuccio che contiene alcuni passi dei testi sacri ebraici affissa all’ingresso delle case – su una porta in un piccolo villaggio in Marocco. In un’immagine è contenuta quella vicinanza umana, storica e culturale che legava gli ebrei ai musulmani marocchini di cui cerca le tracce il film di Simone Bitton presentato in concorso a Filmmaker Festival (sulla piattaforma MyMovies per 72 ore a partire dal 5 dicembre): Ziyara. La Ziyara è la visita ai santi, spesso condivisi da ebrei e musulmani, un viaggio fra piccoli paesi del Marocco per ritrovarsi presso le loro tombe, festeggiare, condividere un luogo e un tempo al di fuori delle divisioni e le prevaricazioni che caratterizzano la contemporaneità – un viaggio inverso rispetto quello compiuto da Bitton nel suo Wall, sul muro di Gaza. «È l’altra faccia della medaglia – spiegala regista -: Wall riguardava la ’separazione’ e Ziyara affronta un tempo in cui la separazione era inimmaginabile. Eravamo tantissimi nel mondo arabo, milioni di ebrei, e ora siamo una ’specie’ in via d’estinzione. Ma io sono abbastanza anziana da essere nata in quel mondo – quello degli ebrei arabi – e di esserci cresciuta dentro».

Fino agli anni Cinquanta la comunità ebraica in Marocco era infatti di circa 300.000 persone, oggi ne restano poche centinaia: «Ce se siamo andati e abbiamo lasciato indietro tutti i nostri antenati, i nostri santi, e quella che è stata la nostra vita per secoli». I custodi dei loro cimiteri, e dei santi, sono tutti musulmani – famiglie che si tramandano di generazione in generazione il ruolo di guardiani e curatori di una tradizione eretta sulla condivisione, delle cui tracce l’on the road di Bitton va in cerca di paese in paese, dai cimiteri ai luoghi sacri e le scuole un tempo ebraiche – fino al piccolo museo gestito da un uomo che fra gli oggetti del passato ha voluto inserire una valigia, simbolo della partenza dal Paese degli ebrei: «Sarebbe bello se, con le loro valigie, potessero tornare».

Cosa la ha spinta a fare lei stessa una Ziyara?
Ho fatto una Ziyara molto prima di girare il documentario. Dopo aver visitato un molti di quei santuari, le persone che li custodiscono mi hanno commossa, specialmente i più umili. Così ho cominciato a guardarli come una filmmaker piuttosto che come una semplice viaggiatrice, anche se originaria di quei posti, che a una certa età ha voglia di ritrovare i luoghi della propria infanzia. Ci tenevo a filmarli perché siamo in un momento storico in cui si devono immortalare prima che svaniscano del tutto – siamo alla fine della storia della nostra comunità, quella degli ebrei in Marocco e in tutto il mondo arabo. Sono gli ultimi barlumi di qualcosa che è esistito, e riprenderli fa parte della nostra missione di documentaristi. È importante parlare di umanità e fratellanza in un mondo che mi appare sempre più disperato. Fare questo film per me è stata una consolazione, e spero lo sia altrettanto per gli spettatori. E in parte è anche una forma di ringraziamento a tutti quei musulmani che stanno custodendo la nostra memoria.

È come se i santi rappresentassero un allontanamento dai dogmi di tutte le religioni, creando uno spazio da abitare insieme, in libertà.
I santi sono un elemento molto importante della cultura popolare marocchina. Io non sono credente, ma in fondo i santi hanno poco a che fare con la religione: sono delle figure che ti proteggono, su cui si può fare affidamento. Erano generalmente rabbini, sufi, persone colte, sagge. Molte volte non c’è neanche una tomba, ma solo qualcosa che resta da tempi antichi, da prima del monoteismo – un velo, una pietra… Oggetti custoditi in posti che si visitano in pellegrinaggio, luoghi di condivisione per persone che altrimenti non si incontrerebbero mai. Ci sono centinaia di santi in Marocco: musulmani, ebrei, ma molto spesso entrambe le cose – sono dei protettori condivisi, una cosa che trovo bellissima. C’è uno scontro fra storici in merito alla condizione degli ebrei nel mondo arabo – tutti naturalmente concordano sul fatto che non ci sia stato un genocidio o delle persecuzioni come quelle subite dagli ebrei in Europa, ma comunque non c’è consenso: alcuni dicono che era un “paradiso”, altri che era una situazione quasi infernale perché eravamo una minoranza. Immagino che la verità stia nel mezzo, ma di certo eravamo molto integrati, e molto simili ai musulmani. I santi ne sono la prova definitiva: cosa può esserci di più importante da condividere dei propri santi?

L’inclusività rappresentata dai santi non riguarda solo la religione ma anche i generi: spesso le custodi dei santi sono donne.
Spesso sono famiglie intere a custodire i santi, e anche questo è un aspetto molto bello: è una missione che si tramanda di generazione in generazione. A volte ti apre la porta il fratello, altre la sorella… Non so se si tratta di una coincidenza, ma effettivamente nel corso del mio viaggio ho incontrato tantissime donne sole, senza marito – vedove o divorziate, che custodivano i nostri cimiteri. Persone stupende, specialmente la donna che incontro a Meknes, che per me è un’eroina: ha imparato l’ebraico da sola, dalle iscrizioni sulle lapidi, per poter condurre i visitatori alle tombe dei loro parenti.
Il film rappresenta un percorso personale, ma attraversa anche la cultura, la Storia, e ha un aspetto propriamente politico, in chiara opposizione ai conflitti che caratterizzano il mondo contemporaneo.
Penso che sia importante raccontare queste storie, specialmente adesso, e forse soprattutto nel posto in cui ora vivo, la Francia, dove una parte dell’Islam è diventata una mostruosità – l’Islam che ho conosciuto da bambina era completamente diverso, fatto di persone amorevoli, di condivisione appunto. Quella di ebrea araba è la mia prima identità e quella più forte: più avanti nella vita ne sono arrivate altre, e tutti gli arabi ebrei della mia generazione sono diventati canadesi, americani, francesi, israeliani… Dovevo raccontare tutto questo prima che fosse troppo tardi.

Il film è intervallato da fotografie del passato, di famiglie ebree in Marocco, e c’è anche la foto dei cari del custode di un santuario scattata da lei anni fa.
Sono foto trovate in musei, vecchi libri, collezioni personali… Quella del custode l’ho fatta durante una delle mie prime visite in Marocco – all’epoca neanche sapevo che avrei girato un film, ma facevo tantissimi scatti: le foto erano il mio modo di comunicare con le persone, le aiutava a ricordarsi di me. Ed era il minimo che potessi fare: dare loro un’immagine «tangibile» come regalo quando le incontravo di nuovo. La foto della famiglia del custode non era stata fatta tanti anni prima, ma le persone invecchiano velocemente quando non vivono nel comfort. Portargli un’immagine di sua madre che non c’è più, e dei suoi figli quando erano più giovani, ha creato tra noi una connessione speciale.