A distanza di quasi settanta anni è legittimo chiedersi in questo venticinque aprile se e in quale misura l’attuale classe dirigente è consapevole dell’eredità lasciata dalla Resistenza.

È chiaro che le generazioni che hanno vissuto la Resistenza oggi sono in gran parte scomparse, ne sopravvive una minoranza, ma il problema non è la loro sopravvivenza fisica bensì la sopravvivenza e la tenuta di quelli che chiamavamo i valori della Resistenza anche tra il passare delle generazioni. Non si tratta di accarezzare con nostalgia quei valori, ma di verificare se nel corpo vivo della società e della classe dirigente sono tuttora vivi e operanti o se sono andati smarriti e dispersi nell’oblio delle grandi trasformazioni che il tempo, la quotidianità e la tecnica hanno impresso alla nostra società. Non ci interessano i richiami rituali o retorici, ma l’espressione viva di quello che eravamo soliti chiamare lo spirito della Resistenza. Vale a dire non soltanto un certo tipo di omaggio e rispetto per le istituzioni, ma anche e soprattutto un costume di vita e comportamenti dei singoli che sono il presupposto di una vera comunità.

Se pensiamo alle speranze e alle ambizioni che ci avevano accompagnati negli anni della Resistenza, oggi ne avvertiamo la distanza, ma anche il senso di vuoto che il loro affievolirsi, se non la scomparsa del tutto, produce nello spirito pubblico. La scuola che dovrebbe essere una delle fonti della formazione, se non la fonte per eccellenza, sembra latitare, al pari di altre istituzioni. Come se si fosse inaridita la fonte di ispirazione del nostro modo di stare nella società. Eppure, a differenza di quanto tenderebbe a suggerire un importante libro recente, la Resistenza non venne dall’esterno, fu espressione immediata di un popolo che si liberava della sua prigionia; fu supportata e aiutata dall’esterno e Londra, a dispetto della Brexit, fu veramente la capitale della Resistenza in Europa. Ma senza il senso e la volontà di riscatto della popolazione non ci sarebbe stato nessun movimento di liberazione.

Acquisite la Repubblica e la Costituzione la democrazia vive, deve vivere, delle sue stesse contraddizioni e dei suoi conflitti, non può essere solo combinazione di aggiustamenti tattici aldilà di ogni meta o ambizione ideale. Il tatticismo fine a se stesso tradisce l’assenza di un progetto, l’estraneità a qualsiasi cultura politica, la rinuncia ad obiettivi credibili e positivi.

Fu lo spirito della Resistenza che fece argine alla disaffezione per la politica imposta dalla dittatura fascista, perché l’urgenza del pericolo incombente impose una mobilitazione di forze che erano rimaste nascoste o paralizzate. Le stesse forze attraverso le quali si trasmisero la spinta e l’entusiasmo della liberazione.

Di tutto questo oggi non rimane che il ricordo che, dopo essere stato alimentato attraverso i racconti dei protagonisti diretti, oggi passa attraverso il filtro della memoria. Oggi sono sempre più avare e povere le memorie familiari che tendono a scomparire con la perdita fisica dei protagonisti, ossia dei testimoni diretti di quegli accadimenti, che per alcuni decenni hanno rappresentato non soltanto la fonte di una narrazione, ma anche e soprattutto un presidio di democrazia e di consapevolezza. Il venir meno delle memorie familiari ha comportato fra l’altro una sorta di selezione e di frantumazione della memoria, quasi che i fatti dei quali i resistenti erano stati protagonisti non appartenessero all’intera società, ma unicamente a chi ne era stato attore diretto.

Ne consegue il rischio che si affievolisca la consapevolezza pubblica e collettiva della somma di tragedie e di sacrifici che sono all’origine della nostra Repubblica e della nostra democrazia. Spetta pertanto alle istituzioni, e ancora una volta in primo luogo alla scuola, alimentare la memoria collettiva, ridare attualità e consapevolezza delle tappe superate in una linea di continuità che non ha solo un significato conservativo, ma anche di rinnovamento.

Rileggere oggi la Resistenza non ha soltanto il valore di una trasmissione di memorie, ma implica anche un impegno, quello di sottolineare il rifiuto di tutte le nefandezze di cui si è fatto carico il fascismo prima e dopo l’8 settembre del 1943, dalla persecuzione degli ebrei alla repressione dei diritti, al disconoscimento della dignità delle persone, alla negazione dell’uguaglianza tra i popoli. Ciò tanto più in quanto si riaffacciano episodi che ricordano le ombre del passato, che non vanno sopravvalutati, ma neppure guardati con distrazione o sufficienza. Soprattutto non dobbiamo perdere il filo della memoria che unisce passato e presente.