Carico di interrogativi espressi, troppi per dar loro un’immediata risposta, Francofonia di Alexandr Sokurov, contiene risposte impossibili da offrire in cambio della sontuosa messa in scena. La sua voce fuori campo accompagna lo spettatore in modo che non si smarrisca tra i cambi scena, l’irrompere improvviso di personaggi, i volti dei ritratti sicuramente già visti ma dove, le date e gli eventi. La voce solitaria dell’uomo.
Due sono le muse a cui si rivolge prima di iniziare il poema, Tolstoj e Cechov. Perché dormite? è la prima domanda e anche a questo non avrà risposta. Occorre il loro sostegno per dare equilibrio al vortice indistinto nel quale ci troviamo, zattera della Medusa che vedremo nel finale. Unico punto fisso sembra essere l’opera d’arte da salvaguardare come testimonianza di identità, o come simbolo di potere tale da poter essere spazzata via. Non ce ne parla Sokurv, ma si sentono in sottofondo i boati delle distruzioni recenti dei «patrimoni dell’umanità».

Il suo sguardo è rivolto all’Europa, al Louvre e mentre definisce i suoi perimetri incalza di domande a sottolineare come sia fulminea la corsa del tempo, dei secoli e assurde le vicende che li compongono, onde della storia «senza ragione né pietà». Ma in questa chiave resta sempre il mistero dell’arte, cosa porta gli uomini a esprimersi con tanta magnificenza, sia la paura del potere, o l’affermazione del potere. O la futilità del potere. Anche il Louvre incarna vari misteri costruiti sul perimetro della fortificazione scelta per fondare Parigi, oggi diventato lo stesso museo città nella città, fatta di labirinti e sotterranei. La scelta di riprendere i quadri che ritraggono il museo con i quadri alle pareti è una presa di distanza, un essenziale gioco di specchi come la scelta di avvicinarsi ai quadri «anomali», quasi dimenticati rispetto alle celebrità. Il museo come luogo del potere è espresso dalla figura di un Napoleone padrone di casa, guida delle sue effigi, ora a cavallo di un asino (il nobile animale cavalcato anche da Gesù nel giorno delle palme) ora in occasione dell’incoronazione a imperatore, o a indicare i tesori trasportati a Parigi come bottino di guerre nelle campagne d’Egitto (che, ricordiamolo avevano al seguito artisti come reporter dell’epoca a descrivere i territori). Presenza da protagonisti hanno i nazisti dell’occupazione: il conte Franz Wolff-Metternich che prende possesso del Louvre in qualità di conservatore delle opere d’arte in Europa, approvando il trasferimento del patrimonio al sicuro nei castelli intorno a Parigi.

Lo accoglie Jacques Jaujard, direttore del Louvre in tempo di guerra, funzionario rimasto a presidiare il museo durante l’occupazione. Musei, cattedrali e castelli non subiranno bombardamenti per disposizione del Reich, escluso il patrimonio artistico all’est, non considerato ufficialmente degno di conservazione. Irrompono nel film le documentazioni d’epoca da Vichy ai bombardamenti all’Hermitage, un altro luogo dell’anima del regista di Arca russa, del milione di morti di Leningrado. Arte o vita umana, cosa preservare? («c’è gente che ha sacrificato la sua vita per l’arte, dice il regista, ognuno fa le sue scelte»).
Un intreccio di generi ci porta dai reperti agli attori in scena (elaborati tanto da perdere ogni parvenza di ricostruzione d’epoca, come attraversate dalla polvere del tempo, come la Marianna che sussurra con il fiato che le resta liberté egalité fraternité). Resistenza, occupazione, Europa unita: tutto passa nel vortice della storia, in mezzo a flutti tempestosi come quelli su cui naviga il cargo carico di container di opere d’arte ormai perse nelle acque come annuncia ad «Aleksandr» l’amico comandante Dirk collegato fortunosamente via Skype, immagini che giungono nello studio del regista, unico punto fermo, con i suoi libri e i suoi appunti e scritti, punto di partenza e arrivo di tutto il film.

«Non credo che mi specializzerò nella serie dei musei, dice, Bbc e gli stessi musei lo fanno già molto bene, lo stesso Louvre realizza i suoi film. Io racconto il Louvre come uno dei miei personaggi». E che dire dell’intersecarsi di reperti, scene girate in costume, immagini al computer e film d’arte che convergono in un flusso ininterrotto? «In quanto alla forma, dice, un tempo per me aveva grande importanza, mentre oggi è importante il significato – cosa, come mai – anche se so che nel cinema le decisioni sono espresse dalla forma. Secondo me devono essere risolte dal significato artistico, ma anche soggettivo, storico, devono aiutare a capire, a far reagire, mettere un subbuglio nella testa e nel cuore. Ci sono moltissimi quesiti con cui il mondo si scontra. Le risposte semplici sono finite, restano domande complesse, ma i politici non sono in grado di darle, non c’è stato nessun rinnovamento, non è cambiato niente. Neanche gli scrittori sono in grado di cambiare qualcosa». In una scena del film di fronte ai quadri rinascimentali il regista si concentra sul mistero dello sguardo di quei personaggi: «La pittura ci permette di capire chi siamo noi europei, dobbiamo guardare il viso dell’altro per cogliere cosa ci differenzia, cogliere gli elementi della cultura dell’altro. È un pericolo mischiare le culture. Proteggete la vostra cultura europea».