«Egli scelse Davide suo servo e lo trasse dagli ovili delle pecore. Lo chiamò dal seguito delle pecore madri per pascere Giacobbe suo popolo, la sua eredità Israele. Fu per loro pastore dal cuore integro e li guidò con mano sapiente»: così il Salmo 78 riepiloga la vicenda di Davide, re dell’antico Israele. Poche parole a racchiudere il tragitto che trasforma un umile custode di greggi in re glorioso. Fulvo di capelli e di bell’aspetto, saggio di parole e abile nelle armi, Davide è ultimo di otto fratelli, figli di Iesse il Betlemmita.

Il suo cammino verso il trono ha inizio con l’arrivo alla corte di re Saul e corre attraverso la vittoria sul gigante filisteo Golia, il matrimonio con la principessa Mikal, il favore e poi la gelosia del monarca Saul, la fuga e la vita errabonda nel deserto della Giudea, dove raduna e si fa capo di una banda di fuorilegge. Poi ancora le nozze con la bella Abigail, la salita a Hebron dopo la morte di Saul e l’incoronazione a re di Giuda, la presa della rocca di Sion, l’insediamento a Gerusalemme e infine l’attribuzione della corona congiunta di Giuda e di Israele che terrà trentatré anni. Da lì in avanti, altri episodi si rincorrono, filtrati da una narrazione biblica ampia e vivace: la battaglia decisiva contro i Filistei, le campagne vittoriose contro Moabiti e Ammoniti, la passione e l’adulterio con Betsabea, la nascita di Salomone, futuro re d’Israele.

Oltre all’abito di guerriero valoroso, confermato dalla catena dei successi politici, Davide è un musico raffinato: citaredo e arpista, fin da ragazzino sorveglia le greggi suonando, suonerà poi davanti a Saul per alleviare la sua malinconia, suonerà per incitare i soldati, suonerà e danzerà davanti all’Arca del Signore che entra a Gerusalemme. Un Orfeo biblico capace di armonie delicatissime, che alterna dolcezza a crudeltà, leggiadria a vigore. La tradizione lo fa inoltre esperto nei versi e gli attribuisce settantatré salmi, oltre ad ascrivergli l’organizzazione del culto e del canto liturgico.

La sua figura polimorfa è amplificata per le vie della tradizione rabbinica e cabbalistica, rilanciata dall’idea ebraica di redenzione che vede la sua linea genealogica condurre diretta al germoglio messianico, stagliata infine nella filiazione evangelica come prefigurazione di Cristo. Una figura che, nei secoli, rimbalza attraverso tutti i codici artistici con attributi ricorrenti, dal vincastro del pastore, alla fionda con la pietra, allo strumento a corda fino al manto e alla corona regale. E le immagini si affollano nella memoria iconografica, da Pedro Berruguete a Rembrandt, al Guercino, all’inquietante Davide di Caravaggio che serra una corda intorno alla testa mozzata di Golia, passando attraverso il bronzo di Donatello e il marmo di Michelangelo, dove il trionfo di Davide è simbolo per sempre della Repubblica fiorentina che celebra i suoi fasti di libertà.
Sembrerebbero non servire ulteriori rilanci narrativi del tema, eppure proprio questa è la via percorsa da Geraldine Brooks, scrittrice e giornalista australiana, vincitrice di un Pulitzer, che ritrova nella materia davidica l’innesco per un’altra riscrittura. Un cristallo di narrazione secolare, quello di Davide, la cui luce non si fa mai fioca e in cui Brooks scorge la possibilità di un nuovo sviluppo in ampiezza e profondità, le tessere necessarie alla composizione romanzesca.

Amplificazione, scavo, resa minuta del dettaglio: è questo l’atteggiamento che accompagna l’autrice nella sua riscrittura, confluita in L’armonia segreta (nella bella traduzione di Massimo Ortelio, Neri Pozza, pp. 302, euro 18,00). Il palinsesto biblico è il fondo da cui si stacca, ampia e a tratti indipendente, la narrazione di Brooks, che distende la vicenda biblica espandendola in molte direzioni, nel prolungamento di quelle linee del racconto che meglio restituiscono al lettore di oggi la personalità e la psicologia del monarca di Israele.

Il racconto è affidato a Natan, il profeta di corte, voce della coscienza di Davide e «sassolino nel suo sandalo». Incaricato da questi di scriverne la storia attraverso le testimonianze di chi l’ha partecipata, osservata o subita, Natan addensa la narrazione sul «dolce cantore di Yisrael», annodando, insieme, i fili della propria speculare vicenda, da piccolo pastore e vignaiolo del Mar Rosso a fonte di temutissimi oracoli.

Dalla biografia di Natan, risulta il disegno di un personaggio dal carattere complesso, capace al contempo di grandi crudeltà e generosità altrettanto grandi, dotato di spregiudicatezza politica e umana ma al tempo stesso capace di riconoscere i propri errori.
A cavallo tra ricostruzione storiografica e dilatazione fantasiosa, tutti i volti di Davide emergono in questo libro, dal brigante spietato che versa sangue innocente, al re amato, al despota implacabile, al monarca capace di ascoltare il mondo, al suonatore che incanta e lascia senza fiato, all’amante insaziabile che fa innamorare donne e uomini e di cui vengono disvelate, forse con eccessiva attenzione, le pieghe dell’eros: «Un uomo dallo sguardo divino, eppure terragno nel corpo, un uomo dalle passioni sfrenate, capace di trucidare gli innocenti e tradire coloro che gli erano più fedeli. Un uomo che amava immensamente e sapeva essere gentile, che si inchinava dinanzi alla verità, onorando chi la testimoniava, pronto a espiare se commetteva il male. Un uomo che ha fondato una nazione e suonava una musica amata dal cielo, i cui canti saranno intonati nei secoli dei secoli».

È Natan la voce di questo narrare, il veicolo della vicenda davidica per i tempi a venire, «una canna vuota dove soffiavano, a volte, le note aspre della verità». Ed è forse la figura che più convince, con i suoi stupori, i suoi dubbi, le sue debolezze, la sua rinuncia a una vita normale per farsi vaso del parlare divino. «Un profeta non è padrone del proprio cuore» e «la verità», Natan lo sa bene, «è che tutti rispettano i profeti del Nome, ma nessuno li ama davvero».
Suo, e di nessun altro, il compito del raccontare, e soprattutto la chiara consapevolezza che nulla rimane, se non, forse, la traccia del ricordo: «Di me, forse, rimarranno solo le mie parole. Non chiedo di più».