Scrivo oggi, quando compio 65 anni, di Ciro che (nell’ingiustizia permanente della vita) non li raggiunse. Scrivo in un décor wellesiano, ho accanto le scatole di un infinito trasloco, che (mie? dei Mille occhi? della Cineteca del Friuli? della nascente Casa del cinema di Trieste?) forse contengono qualche Rosabella: mi vien da pensare che, nel suo primo film su Welles, Ciro non potè che scegliere a titolo quella geniale reinvenzione dell’odiatamato doppiaggio italiano, Rosabella ben più geniale del Rosebud originale perché in quel femminilizzarsi si ripara anche all’oggettiva ingiustizia del film verso la grande Marion Davies. E, pur volendo qui scrivere più di Ciro che di Welles, mi sembra giusto ricordare che, prima del folgorante ritrovamento di Too Much Johnson che rende a Welles la sua vera grandezza, sono stati per me Ciro Giorgini e Rogério Sganzerla a testimoniare con la loro acribia wellesiana del true Welles, su cui non mi hanno mai convinto le apologie critiche precedenti: né quella del massimo teorico del cinema che spesso sbagliava come critico, André Bazin che rischiò un falso canone della profondità di campo unente, via Toland, le due W (Welles, Wyler); né quella dei critici Cahiers che affidavano a Welles la bandiera dell’autorialità dentro Hollywood; né in fase postsessantottesca la schematica biforcazione tra le riletture marxiste (e qui, per Guido Aristarco, il massimo problema diventava il rischio che Citizen Kane ci facesse pensare che anche Gianni Agnelli poteva essere salvato attraverso una sua Rosabella) e l’inventiva di un Tatti (Sanguineti) che, come per Matarazzo e altre scoperte, aveva il merito di una generosa disseminazione di margini attorno a un nucleo affidato ad altri…
E venne alfine Ciro, con i suoi accanimenti sulle varianti, con le sue ricostruzioni in cui si coinvolse Marco (Melani), e che giustamente spiazzarono sia Oja Kodar che l’amico Chema Prado, convinto che a Jesús Franco potesse essere affidato il last cut wellesiano. Se l’Italia fosse un paese che ha un senso, i ministeri della cultura avrebbero dovuto affidare a Ciro ruoli di massimo archivista, come talvolta può succedere in altri paesi anche a chi non ha i giusti padrini politici. E invece stiamo qui a constatare che la meravigliosa Officina Filmclub, o Fuori orario, forse a tratti I mille occhi sono di quelle invenzioni a cui si possono tuttalpiù affidare delle ininfluenti nicchie. I giochi da adulti li fanno gli altri. Viene quindi il momento in cui chi pensa di essere l’interprete assoluto del patrimonio RAI scopre l’acqua calda varando servizi di teca, benemeriti certo ma che nei decenni di attività ufficiale faranno meno scoperte di quante Ciro, o Roberto (Turigliatto) o enricoghezzi (che su «Il manifesto» hanno scritto splendidamente dell’amico) potevano fare in un giorno.
In quest’Italia incompresa da quanti si propongono di rifarla restano, da sempre, in politica come nel cinema, le presenze degli unici, magari unite in piccoli gruppi, pur segnati da rotture e delusioni (i francesi lo colgono meglio: c’est fâché), che però possono ritrovarsi e sapere che comunque ci sono anche nei momenti di distanza. Uno di questi gruppi è L’Officina Filmclub, che, segnata dalla perdita di Fabrizio (Grana), ha trattenuto nel tempo con Paolo (Luciani), Cristina (Torelli) e Ciro una straordinaria persistenza sul cinema. È tra le cose che restano del cinema italiano d’oggi (ben più dei triumvirati cannensi che vorrebbero rappresentarlo), insieme alle tracce di altri unici come il citato Marco, e Alberto (Farassino), Michele (Mancini), Enzo (Ungari), Gianni (Menon), Gianni (Buttafava), Maurizio (Grande), Roberto (Farina), Angelo (Humouda), Piero (Tortolina)… dimentico certamente qualcuno. Mentre talvolta all’estero si sa dare il giusto peso alle presenze (valgano i molteplici film dedicati in vita e in morte allo straordinario João Bénard da Costa, magari in «memorie divise» tra Manuel Mozos e Rita Azevedo Gomes, ma nell’insieme capaci di rendere alla persistenza della presenza il giusto carattere «ordetiano»), da noi tutto sembra ridursi a un confortarsi tra sfigati.
Per me il primo incontro con L’Officina è stato con Paolo, che trovai alla cassa andando a vedere da loro credo un Bresson. Né allora né dopo ci parlammo mai molto ma bastò incontrarsi allora per far perdurare una compresenza. Poi conobbi Cristina, che nel tempo sopporta meglio di chiunque le mie disorganizzazioni, e Ciro, che in quell’occasione non vidi perché non poteva che essere in qualche cabina, in qualche cantina, a qualche moviola: Roberto sul giornale ha colto con pertinenza la «manualità» di Ciro. Io al primo incontro (che non ricordo se fu telefonico o de visu) colsi subito quella voce senza età (le persone cui sono più legato non capisco mai se sono più vecchie o più giovani di me), insieme da padre (e molti anni dopo lo ritrovai magnifico padre con Michele accanto a Silvia) e da bambino che sempre sentiva di essere ingiustamente punito di qualcosa. La voce di Ciro potevo non sentirla per mesi, ma bastava qualsiasi occasionale telefonata per farmela arrivare in tutta la sua flagranza. In realtà non ha mai contato tanto l’oggetto di una conversazione, ma il fatto di sapere senza dubbi che, anche se lo sentivo dopo anni, Ciro era lì tutto. Quando «scelsi» incoscientemente di fuoriuscire da Fuori orario e poi dalla RAI, Ciro e Roberto mi fecero sentire la loro presenza anche senza dire molto e fare ancora meno. E nel tempo continuavano ad arrivarmi regali preziosi, da condivisioni di passioni (su John Ford non c’era bisogno di mediazioni come per Welles, e Ciro mi fece incontrare altri fordiani, da Tag Gallagher a Fabio Troncarelli) a doni quale il ritrovamento di La promessa di Valerio Zurlini, e Ciro venne a Trieste a presentarlo (anche per poter incontrare due altri vecchi amici, Rosella Pisciotta e Cesare Piccotti). Avrebbe dovuto venire ai Mille occhi anche l’anno scorso, per me il fatto che ci tenesse era un ulteriore dono, ma pochi giorni prima del festival dovette rinunciarci.