Il lutto è non soltanto della letteratura australiana, se è vero che un regale dominio delle risorse foniche, tonali, lessicali dell’inglese fanno di Les Murray – come disse Iosif Brodskij – «colui grazie al quale la lingua vive».
Morendo ottantunenne, dai ventiquattro componimenti in The Ilex Tree (L’elce, 1965) all’ultima edizione di Collected Poems uscita l’anno scorso, Murray lascia venti volumi di poesia ai quali si aggiungono i dieci di prose saggistiche, che valgono come preziosa introduzione e commento alle poesie, costituendone a volte una traccia preparatoria, e delle quali offre un’ottima scelta in italiano Lettere dalla Beozia. Scritti sull’Australia e la poesia a cura di Massimiliano Morini (Giano, 2005).

NEL DEFINIRE la sua opera poetica un «romanzo» a cui dà continuità «la voce di un personaggio che è in vario grado me stesso, a seconda del suo coinvolgimento con i temi», Murray additava la fondamentale correlazione esistente tra la sua esperienza personale e le sue poesie. Fino al 1957, quando la lascia per iscriversi alla Sydney University, Murray vive a Bunyah, nell’area costiera del New South Wales settentrionale dove, alla metà dell’Ottocento, si erano insediati i suoi antenati scozzesi, agricoltori, allevatori e tagliaboschi, presbiteriani fieri del proprio passato gaelico.

LA FATICA DEL PADRE per tirare avanti il podere che spera (ma vanamente) di ereditare, la morte della giovane madre (che si sarebbe forse salvata vivendo più vicino a un ospedale), la derisione e l’ostracismo dei compagni di scuola di cui, adolescente, è vittima per il suo aspetto fisico e la sua eccentricità, sono esperienze all’origine del suo identificarsi, nelle poesie, con coloro che sono socialmente e culturalmente svantaggiati, del suo farsi voce della loro muta soggezione, della convinta affermazione che eguaglianza e giustizia sono bisogni umani primari che esigono soddisfazione, nonché all’origine della veemente indignazione di fronte a ogni forma di esclusivismo elitario o di conformismo ideologico che discreditano ed escludono il debole, il dissidente, il diverso.

ALLO STESSO TEMPO, per un bambino, e poi per un giovane, solitario, introverso e pieno di attenzione e riverente stupore per il mondo naturale, inanimato e vivente, crescere a Bunyah significa fare e sentirsi parte di una comunità omogenea e coesa, dedita a lavori antichissimi scanditi dal ciclo delle stagioni – una comunità che è un’icona in miniatura di quella civiltà rurale e pastorale fiorente nell’antica Beozia, ricca di luoghi sacri a una religiosità arcaica e produttrice di una poesia commemorativa e celebrativa, che in tutta la sua opera Murray propone come salutare complemento e umanizzante correttivo della civiltà ateniese (metropolitana, mercantile, individualistica, dell’agorà, del teatro e del pensiero razionalistico), quella che trionfò sulla prima fino a rendere il termine «beota» sinonimo di provincialismo ottuso e retrogrado. Esattamente ciò che hanno fatto, nel corso della storia occidentale e poi globale, tutte le successive reincarnazioni di Atene nei confronti delle civiltà «beote» che si sono trovate sul loro imperialistico cammino.
Nel 1985, quando potrà comprare e regalare al padre venti ettari della terra su cui questi aveva tanto sudato, Murray tornerà definitivamente a Bunyah: «a casa», dirà. I quasi trent’anni passati da quando era arrivato a Sydney con il chiaro proposito di educarsi a diventare poeta (donde l’immersione nella poesia di tutto il mondo e di tutte le epoche, lo studio di molteplici lingue, europee ed asiatiche, e di mitologia, antropologia e psicologia), erano stati gli anni in cui Murray, libro dopo libro, era venuto concretando la poetica condensata nel titolo del suo primo volume di poesie scelte: The Vernacular Republic. Poems 1961-1976.
È una repubblica, scrive in un saggio del 1976, «(che) esiste già da lungo tempo, coestensiva con la nostra tradizione vernacolare, cioè con quell’Australia ‘del popolo’, in parte immaginaria e in parte storica, che è la vera matrice di qualsiasi tratto distintivo noi possediamo come nazione e qualcosa di molto più importante dei vari establishments e delle varie élites coloniali».

IN UN ALTRO SAGGIO, definendo l’arte «la memoria delle nazioni», la cui vita riflette e celebra, Murray osserva che essa può avere «effetti essenzialmente unitivi», anche per una società «caratterizzata, come quella industriale, dalla divisione». Redivivo shenachie gaelico (il cui compito era tener vive e celebrare le gesta del clan), Murray assume il ruolo di voce e memoria dell’Australia, individuandone e celebrandone i tratti distintivi nello spirito «unitivo» di chi auspica la futura perfetta creolizzazione della sua società, vale a dire la fusione delle sue componenti culturali – l’aborigena, la metropolitana e l’agreste-pastorale (o quel che di quest’ultima è ormai rimasto).
Tale è il chiaro intento di episodi salienti della sua opera come il The Buladelah-Taree Holiday Song Cycle (presente in traduzione italiana nell’ampia antologia Un arcobaleno perfettamente normale, Adelphi, 2004) o come i due romanzi in versi, The Boys Who Stole the Funeral (I ragazzi che rubarono il funerale, 1980) e Fredy Neptune (tradotto in italiano da Massimiliano Morini, Giano, 2005).

 

 

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Doccia

(poesia da Un arcobaleno perfettamente normale, Adelphi, 2004)

Dalla cipolla di metallo

un’esplosione d’estasi

che arriva come uno shock, un torrido scroscio privato,

pessima in una vasca morchiosa di pensione o in caserma (con la

concorrenza),

ottima in cabina, quest’avvolgente passione australiana:

tropici che per te sudano, torrente che fortifica col suo calore

e t’infiamma col suo gelo, effetto sauna, bidet all’incontrario,

elegante corrusco verticale fantasma del tuo fiume interiore,

ricordativo di tutti i tuoi fluidi, colante dalle tue punte, che sprigionando

giardini dall’appiccicoso sapone lo desta al fiorire di un autunno pieno,

fumoso valletto che ti fa scivolar via l’impalpabile pigiama della notte,

pilastro che puoi attraversare, campo di forza che assolve le fatiche d’amore,

il tratto più piacevole del percorso di jogging, veloce aereo meticolosamente

governato con due controlli, o tenuto in assetto con zigrinata rotella.

A certi quest’energia piace sopirla e restarci distesi,

tracciando cerchi di piacere – ma mia delizia è quella toga

portata su una o tutte e due le spalle, panneggio scanalato, seta frusciante,

sulle mattonelle col suo spumoso orlo spiraleggiante sul gorgoglio dello

scarico;

quest’estatica partner, da ballarci sognante in lento abbraccio

dopo heavy metal, o se no da incontrare come distratta e pietosa

moglie di Lot su rugginosa nave a latitudini da cani,

miglior toeletta della giornata nel bush polveroso, distensiva

capsula del tempo a durevole effetto, lene, schietta, beneaugurante.

Solo in Inghilterra il nome suo è parola inurbana;

solo in Europa si gode per telefono.