Aveva una voce quasi priva di tenerezza con cui sussurrava amore all’orecchio di migliaia di persone e rivoluzione al cuore di milioni, e grandi occhi che rapidi nascondevano la solitudine dietro un velo. Così la descriveva Maya Angelou nel 1970, chiedendosi: What happened, Miss Simone? È quello che nel 2015 ha provato a raccontare il documentario di Liz Garbus, a cui quest’anno si aggiunge (in Italia nella traduzione di Elena Montemaggi per Il Saggiatore) la biografia scritta da Alan Light. Il libro è un’integrazione del documentario e si basa sulla stessa messe di materiale, tra cui i diari e le lettere dell’Alta Sacerdotessa del Soul, e ne racconta la vita, l’arte, il disagio psichico sfociato in una diagnosi di disturbo bipolare negli anni ‘80, il drammatico rapporto con la figlia, gli anni caotici, lo sbando e il complicato ritorno all’attività concertistica. Ne racconta anche i tempi, in particolare il decennio dei Sessanta, di cui Nina Simone fu protagonista partecipando attivamente alla causa dei neri americani. «Se era brillante e al contempo instabile non era forse perché viveva in un momento storico altrettanto brillante e instabile?», si chiede Light nell’introduzione. Secondo Attallah Shabazz, figlia maggiore di Malcolm X, «semmai erano i tempi a essere in conflitto con lei».

Se fosse ancora viva, Nina Simone sarebbe contenta dei nostri tempi? Il fatto che nel 2013 – dieci anni dopo la sua morte, cinquanta dopo il sogno del Reverendo King e durante il secondo mandato del primo presidente afroamericano della storia – sia nato il movimento Black Lives Matter l’avrebbe fatta tuonare di rabbia. Nella migliore delle ipotesi, questa si sarebbe tramutata in un inno molto più incendiario di Mississippi Goddam, la canzone scritta nel 1964 dopo l’assassinio di Medgar Evers in Mississippi e le bombe nella chiesa battista di Birmingham, in Alabama, che uccisero quattro bambine nere. Oggi la Dottoressa Simone avrebbe 83 anni, due meno di Toni Morrison, e sicuramente una medaglia presidenziale al collo come Ella e Aretha, ma ciò non avrebbe fatto di lei un’icona serafica nell’Olimpo dei neri d’America.

Eunice Waymon era cresciuta a Tryon, North Carolina, dove i binari della ferrovia dividevano la città in due, da una parte i bianchi dall’altra i neri. Binari che lei attraversava per andare a lezione di pianoforte da un’insegnante bianca, una bambina nera trasformata in piccola schiava dal talento per la musica: accompagnava la madre, ministro battista, nelle funzioni in chiesa, suonava per il coro, andava a scuola, aiutava in casa, prendeva lezioni, si esercitava per ore. A dodici anni, al primo recital, vide i genitori in fondo alla sala e i bianchi seduti davanti. Pretese per loro due posti in prima fila, ma quell’episodio traumatico fu determinante per il suo futuro impegno di attivista. Un’altra fonte di rabbia e frustrazione fu la mancata ammissione al Curtis Institute che mise fine al sogno di diventare la prima pianista classica nera. Per guadagnarsi da vivere iniziò a suonare nei club e a incidere dischi, diventando una straordinaria pianista e interprete che non dimenticò mai né l’imprinting di Bach né la rabbia provata da bambina.

Nina Simone ha dato ai neri l’orgoglio di quell’identità che lei stessa ha cercato tutta la vita: To be young, gifted and black è una grande canzone d’amore per la sua gente prima che un inno motivazionale (Barack Obama aveva otto anni all’epoca, abbastanza grande da ricordarsela). Un’identità che per le donne è più difficile da trovare: «Chi sono, da dove vengo, mi piaccio davvero?», si chiedeva. «Se sono nera e bellissima, e lo sono davvero e ne sono consapevole, allora non mi interessa se qualcuno afferma il contrario». Canzoni come Four Women sono decisamente universali: la cruda riflessione sulla condizione delle donne afroamericane vale per ogni donna non emancipata.

Forse quello che oggi la renderebbe felice è vedere in testa a molte classifiche di fine anno opere discografiche come Lemonade, il visual album di Beyoncé, un’autobiografia individuale e corale allo stesso tempo, l’opera ambiziosa di una donna che esce rigenerata da una crisi profonda. Una gloriosa affermazione di identità, autoconsapevolezza, creatività, emancipazione e potere che esalta la sorellanza e un mondo matriarcale in cui non esiste post-verità.