Ha ventitré anni Cesare Pascarella quando, racconta Fabrizio Sarazani, «entra ‘ufficialmente’ nella Poesia il 31 marzo 1881». Il caso, con più di un risvolto divertente, è presto detto.

Roma. Al nuovissimo Teatro Costanzi, solennemente inaugurato quattro mesi prima, il 28 novembre 1880, con una rappresentazione della Semiramide di Gioachino Rossini, l’Associazione della Stampa organizza un ‘grande spettacolo di beneficenza’.

Una delle attrattive, con la ‘Grande Lotteria di Premi’ e la ‘Via Nazionale Illuminata a Giorno per cura del Comitato Organizzatore e a spese della Società del Gas’, è costituita dal ‘Museo di Animali Impossibili’, allestito dagli artisti del Circolo Internazionale.

Tra gli animali impossibili, vestito da scimmia, sta il giovane Pascarella. Penzola, arrampicato sopra un palo che voleva essere un albero di cocco e «divertiva il pubblico, scrive Sarazani, con le capriole nella sua maschera di scimmietta ubriaca, e a tratti diventava scimmia parlante e sapiente, spiegando il significato di certi affreschi nei quali erano rappresentate cinque razze umane. A ciascuna razza la sua ‘virtù impossibile’».

Si potevano osservare certi uomini raffigurati con la pelle verde ed erano gli artisti, come insegnava in una sua fantasiosa concione la scimmia Pascarella, gli artisti «per lo più morti di fame, i quali bevono sogni, mangiano colori all’olio e pane fatto di creta umida o di marmo fresco».

Tra gli altri assiste alle prodezze della scimmia parlante Gennaro Minervini uno dei redattori del «Capitan Fracassa». Visita il Museo di Animali Impossibili in compagnia del tenore Augusto Rotoli che gli dice: «Non sai che quella scimmia compone sonetti in romanesco?». E allorché Pascarella, dopo molte insistenze e molti dinieghi, recita a Minervini, a luci spente, il pubblico ormai defluito, nell’androne del Costanzi uno dei suoi sonetti, il letterato ingiunge alla scimmia (che indossa ora, annota Sarazani, «un vestituccio turchino, dal taglio avaro, le ghette gialle, scarpe nere lunghissime, il solito cappelluccio bizzarro, lo scialletto a scacchi»): «Vieni subito con me agli uffici del mio giornale». E, quasi a forza, Rotoli e Minervini, lo portano alla redazione del «Capitan Fracassa» in via del Corso.

Nell’agosto del 1881 «La Cometa», strenna estiva del «Capitan Fracassa», pubblica quattro sonetti di Pascarella e nell’ottobre («Nel «Fracassa» comincia da oggi una serie di sonetti in romanesco di Cesare Pascarella», annuncia la rivista), appare La Comparsa, una esilarante rappresentazione comica del rapporto realtà-finzione sulle tavole del palcoscenico.

Un ragazzotto all’ultimo momento sostituisce una comparsa dello spettacolo che sta per andare in scena. Ci racconta che gli mettono un costume di paggio di palazzo e con altri tre, muto e composto, assiste alla tirata del Re che «Tutto quanto vestito de velluto,/Dice: -Ma dunque è ver? Tutto è perduto?/- Pur troppo, sire, è persa la battaja.//E su la reggia fiocca la mitraja, -/Je fece un antro. E lui:- Sangue de Pruto,/Dice, la guerra è persa? Io so’ fottuto.» E il ragazzotto ci racconta che il Re rivolgendosi a lui e alle tre comparse, «Dice, sête ’na massa de canaja: //E annate a morí’ tutti d’accidente.-/E li sur parco ce ne disse tante/Che manco la vergogna de la gente!». E chiude, indignato e ancora fremente, dicendoci «Che si uno di queli giovenotti/Che faceva co’ me da commannante/Nun me regge, l’abbotto de cazzotti».

Pascarella, inesorabilmente attratto dalla scena, da quel multiforme gioco tra artificio e verità, da quei pericolosi equilibri tra sentimento recitato e passione vissuta. La scena, donde pure è possibile istituire intrecci di senso e intese con il pubblico quali nella vita di ogni giorno non si determinano, anche nelle relazioni più strette. La vocazione teatrale di Pascarella: «Io sono un aedo, l’ultimo degli aedi. Stampare i sonetti mi è stato sempre indifferente. Recitarli mi ha fatto sempre piacere. E nel teatro più che in una sala. Sul palcoscenico ti muovi, agisci, e la folla ti segue. Sorge, si alza vive con te, la plasmi dei tuoi sentimenti. Il popolo sente il mistero e il fascino della poesia».