Con la pubblicazione del secondo Meridiano a lui dedicato (Romanzi e racconti 1967-1986, pp. 1704, euro 80,00), Mondadori mette a disposizione dei lettori italiani l’intera opera di Bernard Malamud, consentendo di comprenderne la centralità all’interno del canone letterario ebraico-americano, ma anche l’eccentricità e l’originalità rispetto ai due giganti con i quali compone una sorta di storica triade, ma che troppo spesso lo hanno schiacciato e messo in ombra con la loro esuberanza: Saul Bellow e Philip Roth. Se il primo Meridiano, raccogliendo la produzione dell’autore tra il 1952 e il 1966, includeva quattro romanzi e due raccolte di racconti che andavano a comporre un quadro profondamente armonico, quello appena pubblicato mostra i segni di un’irrequietudine e di una vitalità, di una capacità di rinnovarsi e di scompaginare sistematicamente le carte intorno a ciò che può e deve essere narrato, e a come narrarlo, che ha qualcosa di ammirevole e di spiazzante al contempo.
Buona parte della critica ha in effetti individuato una netta cesura tra una prima e una seconda fase nella carriera di Malamud. Mentre i primi romanzi e racconti sarebbero accomunati da un equilibrio quasi sempre perfetto tra comico e tragico, da una tendenza alla parabola, dall’irruzione dell’elemento favolistico e sovrannaturale in un contesto di realismo brutale che sembra richiamare la letteratura della Grande Depressione, diventa assai più difficile, a partire da Gli inquilini – il romanzo del 1971 che, rasentando lo sperimentalismo e la metanarrazione tipici del postmoderno, destò forti perplessità e disorientamento nei primi recensori –, individuare una linea unica di ricerca nella produzione più tarda. E se i magnifici racconti de Il cappello di Rembrandt (riproposto in volume singolo anche da minimum fax, e in questi stessi giorni) suggerivano un ritorno di Malamud alla sua vena più autentica – soprattutto in piccoli capolavori come «La corona d’argento» o «Mio figlio, l’assassino», incentrati sullo stesso conflitto tra padri e figli che aveva innervato il suo secondo, superbo romanzo, Il giovane di bottega –, già ne Le vite di Dubin, peraltro ammiratissimo, la sovrapposizione tra l’esistenza del protagonista e quella dei personaggi di cui scrive le biografie, da D.H. Lawrence a Thoreau, da Twain a Lincoln, innesta una riflessione nuova, e di impareggiabile acume, sull’arte e sulla finzione, sulla storia e le sue versioni, senza peraltro mai virare verso il cerebralismo che contraddistingue tanta narrativa degli anni Sessanta e Settanta, e distendendosi in pagine commoventi sulla vecchiaia, e sul rifiuto di essa.
«Sperimentalismo» è forse il termine giusto per definire la produzione del secondo Malamud: a condizione, però, che ci si intenda sull’uso del termine stesso. Come ci ricorda Paolo Simonetti nel suo denso saggio introduttivo, dietro una vita riservata e apparentemente povera di eventi, che avrebbe indotto Roth a descriverlo come «una sorta di assicuratore, un uomo tetro, triste, con così poche risate», Malamud mostrò sempre un’attenzione ossessiva per l’evoluzione della cultura e della produzione letteraria, americana e non, e la capacità di riflettere con straordinario acume sull’evoluzione di un mercato sempre più polarizzato tra la caccia invasiva al libro di successo e una letteratura «difficile» e autocompiaciuta, destinata a un pubblico di lettori che finiva pericolosamente per coincidere e limitarsi agli studenti delle scuole di scrittura creativa. L’adesione convinta e il sostegno all’iniziativa di Fiction Collective, nata a cavallo tra due università e concretizzatasi nella fondazione di una casa editrice autonoma, svincolata dalle logiche di mercato, ci rivela molto sulla posizione di Malamud, il quale, in un’intervista rilasciata a La Repubblica nel 1984, insisteva sulla necessità di «stabilire un metro di giudizio letterario diverso non solo da quello commerciale, ma anche da quello accademico-sperimentale. Volevamo dimostrare che si possono pubblicare con successo anche libri – soprattutto romanzi – che non hanno niente a che fare né con il grande mercato, né con quello ristretto degli specialisti. Libri buoni, insomma, anche se non incontrano il favore del tempo».
Sono parole, queste, con le quali, più che alla produzione di Fiction Collective – che sarebbe spesso precipitata nelle secche di uno sperimentalismo ancor più feroce ed elitario rispetto a quello dei maestri del postmoderno –, Malamud sembra alludere prima di tutto a se stesso, e alla sua produzione letteraria. Nulla più de Gli inquilini o La grazia di Dio sembra rispondere infatti alla definizione di «libro che non incontra il favore del tempo». All’esuberanza verbale e all’inventiva con cui Roth – in quegli stessi anni – smontava dall’interno la tradizione ebraico-americana, o all’ironia feroce con cui Pynchon decostruiva la storia ufficiale, si contrappone, in questi romanzi, lo sforzo di affiancare alla dissoluzione e alla deriva dell’io, ebreo e americano, una nuova declinazione dei grandi temi morali che erano già risuonati nelle pagine più belle e intense de Il ragazzo di bottega, Il barile magico o L’uomo di Kiev: la ricerca di un riscatto attraverso la sofferenza e l’umiliazione, l’assunzione della propria colpa, la riconciliazione con il passato e il recupero dell’identità.
Questa è la grande forza e il fascino della seconda stagione letteraria di Malamud: il rifiuto di sfruttare il proprio successo commerciale e critico ripetendosi, e la ricerca di una terza via tra best seller e sperimentalismo fine a se stesso, nel nome di una letteratura che sappia esplorare nuove strade, riflettere su se stessa e sul proprio stesso farsi, senza tuttavia perdere di vista una vocazione essenzialmente etica. Gli esiti di questa ricerca sono certamente disuguali, né una rilettura delle ultime opere di Malamud deve necessariamente condurre a un ripensamento del canone critico. Non c’è dubbio che, tra le opere di questa seconda fase, Le vite di Dubin rimanga l’unica nella quale la riflessione sull’arte e il racconto di una vita occupano lo spazio romanzesco assestandosi su un mirabile equilibrio. Tutti gli altri libri sono invece stranamente imperfetti: lavoratissimi sul piano strutturale e stilistico, ma anche irrisolti: che si tratti della inquietante parabola kafkiana de Gli inquilini, del racconto filosofico e apocalittico, tra fantascienza e teologia, de La grazia di Dio, o del western revisionista de Il popolo, rilettura della lunga marcia dei Nez Percé dall’Oregon al Canada, con un venditore ambulante ebreo alla loro guida. Letti in un unico volume completano però il ritratto di uno scrittore coraggioso, capace di cogliere lo spirito dei tempi e calarvisi, senza perdere la sua identità e il senso profondo della sua arte. Una cavalcata appassionante, ulteriormente valorizzata dalla qualità editoriale del volume. Impeccabile, dal saggio introduttivo alle ampie note ai testi, la curatela di Simonetti, uno degli angloamericanisti migliori in circolazione; eccellenti le traduzioni, che uniscono, in ideale continuità, interpreti «storici» di Malamud come Ida Omboni e Floriana Bossi e nuove voci come Monica Pareschi, Igor Legati e Claudia Valeria Letizia. In un momento nel quale tanto si discute sulla qualità discontinua e sulla frettolosità di pubblicazioni anche importanti e attese, trovarsi di fronte a un lavoro di questo peso, condotto a termine senza la minima sbavatura, è fonte di particolare soddisfazione.