Si è chiusa ieri a Bologna la quarantunesima edizione di Artefiera (con 48mila visitatori) segnata da un cambio di passo e dall’impronta data dalla nuova direttrice Angela Vettese, in carica per i prossimi tre anni. La storica d’arte, curatrice, docente e già direttrice di musei, ha deciso di snellire stand e padiglioni e di puntare sulla qualità rispetto alla quantità. La kermesse si è articolata in Main Section, Solo Show e Nueva Vista, curata da Simone Frangi, e Special Projects sezione di performance e incontri pensata da Chiara Vecchiarelli.
«Le fiere oggi sono molto diverse dalle edizioni di quarant’anni fa, quando vide la luce anche quella bolognese», afferma Vettese.

Quali sono state allora le novità di questa quarantunesima Artefiera?
Ormai si è reso necessario seguire l’evoluzione che ha portato le fiere ad essere non solo luoghi di commercio, ma anche di scambio culturale. Senza nulla togliere al mercato, devono fare spazio alla qualità e alle nuove proposte. In base a ciò, abbiamo pregato i galleristi di essere più propositivi e portare meno artisti: non sempre è stato facile. L’idea era quella di dare più aria e ossigeno, più possibilità di transito e meno metri da percorrere. Qui a Bologna ci si affatica e, a un certo punto, si crea l’effetto occhi pieni. C’è molto da vedere anche fuori, oltre gli stand, secondo l’idea che la fiera sia un sasso gettato da cui si diramano onde che arrivano fino al centro storico. Ci interessava far vedere Bologna per quello che è: una città dotta, bella e anche molto produttiva.

Che ruolo gioca, ancora oggi, la crisi sul mercato dell’arte?
La crisi c’è, ma non riguarda tanto i beni rifugio. Il mercato dell’arte è un mercato del lusso. Per questo ho ritenuto importante mettere a disposizione del pubblico mostre che si possano vedere comprando un biglietto non caro, mentre non tutti possono permettersi di comprare un’opera. I due pubblici possono essere soddisfatti, in maniera diversa.

Qual è lo stato di salute del collezionismo italiano?
L’Italia è tradizionalmente un paese di grande collezionismo in termini quantitativi: tutti gli italiani hanno un quadro in casa. Detto questo il gusto non è educato, non si fa storia dell’arte al liceo né all’università, non si lavora sul contemporaneo, manca un’attività formativa… Fra i compiti delle fiere quindi c’è anche quello di rendere un luogo d’arte più accessibile rispetto al museo, dove proporre qualcosa che il visitatore non conosce. Il collezionismo è quantitativamente ampio, ma qualitativamente non è così vivace, pur se gli ultimi anni hanno portato molto in alto le vendite di opere d’arte italiana degli anni ’60 e ’70. A livello internazionale c’è stato un picco che sta esaurendosi. Possiamo cercare di coltivarlo con pubblicazioni ed esposizioni interessanti. Ci hanno accettato nella storia dell’arte e nel mondo delle aste: cerchiamo ora di tenere le posizioni.

È possibile un dialogo fra il contemporaneo e l’arte del passato?
Vivono benissimo insieme. In Italia è quasi impossibile evitare il passato, qualsiasi installazione, mostra o scultura in area pubblica entra in contrasto con splendidi palazzi antichi. Anzi, citando Renzo Piano, si può rammendare il passato attraverso pezzi di contemporaneo. L’Italia va continuamente rammendata non solo per i terremoti, ma perché avendo così tante tracce antiche richiede messe a norma, nuove pavimentazioni, lavori di adeguamenti per la fibra ottica o la costruzione di metropolitane. Dobbiamo sempre «rifare il passato».
Sarebbe bellissimo se imparassimo a rammendarlo con innesti importanti di contemporaneo; in fondo, è quello che l’Italia ha sempre fatto. A Bologna, il Gotico convive con il Medioevo e il Rinascimento. Il nostro paese è fatto così, se inseriamo pillole di contemporaneo non tradiamo l’identità italiana, ma la confermiamo.

Che progetti sta coltivando per le edizioni future?
L’obiettivo commerciale è attirare di nuovo le gallerie internazionali. Poi, ho un sogno più personale: trasformare Artefiera in un momento di festa del contemporaneo che coinvolga tutta la città. In parte, è già così. Sarebbe bello diventasse un festival delle arti che, dal piano economico passasse a quello culturale e della vita civica per creare occasioni comuni. In Italia è una formula che funziona: Mantova la ricordiamo più per il Festivaletteratura che non per la città stessa con le bellezze che Mantegna e Giulio Romano ci hanno lasciato. Per riconoscerli, abbiamo avuto bisogno di un appuntamento annuale.
Credo che Bologna non abbia bisogno di questa pubblicità, è una città colta, bella e non solo uno snodo ferroviario e viario. È necessario però ribadirlo, altrimenti perderemmo di vista che è una città d’arte con grandissime potenzialità sul piano sociale, produttivo e culturale. Artefiera dovrebbe diventare la cellula in grado di far scoppiare una bomba di cultura e divertimento.