Davide Barletti e Lorenzo Conte restituiscono, dall’adattamento del libro di Carlo D’Amicis La guerra dei cafoni, una favola per ragazzi brillante e poetica, intrisa del suono dei dialetti del sud e di una luce assolata che brucia i confini di una terra immaginaria, Terramatta, in cui i giovanissimi protagonisti giocano a fare la guerra, eredità delle lotte tra i ricchi Signori e i poveri Cafoni.

Davide cosa vi ha spinto a trasporre il libro?

La presenza nel racconto degli adolescenti. Presenza che ha portato, nel lasciare completamente il campo ai ragazzi, ad avere uno stacco rispetto al libro. Carlo stesso si è inserito nel gruppo di sceneggiatura ed è stato il primo a partire dal libro e in qualche modo a trascuralo; cosa che gli scrittori non fanno spesso. Il nostro intento era quello di tratteggiare una favola per ragazzi: tutti all’inizio del film vivono con il peso del passato che l’inchioda in questo tempo senza tempo nel quale, avere 15 anni, equivale ad averne 1000. Sono degli archetipi. Questa guerra tra bande, questa inconsapevole missione, consiste proprio nel riconquistare lo scorrere del tempo, uscire dalla storia che gli ha preceduti.

Nel film non sono presenti né elementi che indichino un luogo ben preciso né il tempo se non per i costumi e gli oggetti che rimandano gli anni 70’. C’è un’analisi in qualche modo di questo decennio?

Proviamo a rileggere in modo diverso un’epoca un po’ stereotipata: gli anni 70 non sono solo pantaloni a zampa d’elefante o telegiornali sul sequestro Moro. Ci interessava questo periodo perché è la rappresentazione di un ambito mentale che faceva degli italiani delle persone diverse da quelle di oggi, con un sistema di valori e di rapporti interpersonali molto specifici. Il nostro lavoro prova ad elaborare quegli anni in termini psicologici e culturali. In quel periodo, soprattutto nel meridione, questa bipolarizzazione tra cafoni e signori viene un po’ rotta. L’Italia diventa un po’ adulta come i protagonisti del film: esce da quello che è, ma si scontra con quello che sarà. Il libro è ambientato in quel periodo, ma abbiamo deciso di lasciarlo un po’ ai margini.

Un c’era una volta.

Esatto. Rispetto alla scelta dei luoghi abbiamo provato a rileggere un territorio scontato nell’immaginario collettivo. Abbiamo voluto rivelare un aspetto quasi metafisico girando nelle lagune, in boschi magici, in bunker militari abbandonati. Torrematta è un luogo non luogo. Anche li abbiamo voluto lavorare su degli archetipi, cioè che i posti fossero famigliari, non nella riconoscibilità di un luogo specifico, ma che avessero un rimando a qualcosa di ancestrale.

Com’è nata l’idea di utilizzare più dialetti?

È nato tutto da un lungo lavoro di casting. Abbiamo individuato 22 ragazzi che venivano dalla strada, nessuno aveva esperienze precedenti e venivano da diverse parti della puglia. Ci sembrava giusto che si esprimessero nella loro “lingua”, che avessero la naturalezza del linguaggio tutti i giorni. Si è creata una polifonia di suoni, un canto; che è diventato una particolarità del film.

Com’è stato il lavoro sul set?

Trovati i protagonisti abbiamo fatto una cosa molto bella: siamo andati a vivere insieme. Abbiamo fatto un laboratorio sul mestiere del cinema che in qualche modo li preparasse a ricostruire un senso di comunità e di responsabilità. All’inizio il lavoro è stato molto difficile. Poi quando capisci che tu adulto non devi spiegare le cose come le vuoi tu o nel tuo linguaggio, ma trovi un linguaggio paritario, allora tutto diventa più semplice.

Avete presentato il film all’estero, com’è stato accolto?

Siamo stati al festival di Rotterdam, Copenaghen e il film sta girando in diversi festival. Ovunque andiamo percepiamo molta curiosità e interesse nel vedere l’Italia attraverso gli occhi di questi ragazzi. Ciò che è stato apprezzato molto è l’assenza di un sud stereotipato. Vedere questa favola un po’ grottesca, lasciata completamente a dei ragazzini, è una cosa che non si aspettano.