L’incontro tra Assem è Mariam dura solo una notte, eppure le loro vite ne saranno cambiate per sempre. Entrambi affrontano sfide decisive, la prima che come archeologa indaga sulle razzie compiute dall’Isis tra siti e musei di Siria e Iraq, con un male che rischia di avere il sopravvento, il secondo, un agente segreto francese che dà la caccia ad un ex membro dei corpi speciali americani forse passato con gli jihadisti, con i dubbi crescenti sul fatto di combattere per una «buona causa».
Le vicende di cui i due sono protagonisti, sullo sfondo di un Mediterraneo scosso dalla violenza dell’integralismo islamico, si incrociano con quelle di personaggi storici come il condottiero cartaginese Annibale, il generale nordista, e 18/mo presidente degli Stati Uniti, Ulysses S. Grant, e l’imperatore d’Etiopia Hailé Seilassié, fino a comporre un quadro in cui i drammi del presente si specchiano nei conflitti del passato e nelle tracce che hanno lasciato nella memoria dell’Occidente.

Con Ascoltate le nostre sconfitte (e/o, pp. 208, euro 16,50), lo scrittore e drammaturgo francese Laurent Gaudé, ospite del recente Festivaletteratura di Mantova, già vincitore del Prix Goncourt e di cui nel nostro paese sono stati pubblicati anche La morte di re Tsongor, Gli Scorta, Eldorado e La porta degli inferi, costruisce una sorta di epica contemporanea dove la consapevolezza della sconfitta prende progressivamente il posto della celebrazione della vittoria.

Dai condottieri del passato, vincitori sui campi di battaglia ma piegati dalla vita, alla sorte incerta di personaggi che si muovono tra le contraddizioni del mondo di oggi. Il suo è un romanzo sulla sconfitta?
Volevo esplorare questo tema sia dal punto di vista della Storia e della guerra che da una prospettiva più intima e quotidiana. Perciò ai grandi del passato si affiancano due personaggi che, pur conducendo vite lontane dalla normalità, si devono misurare con incertezze, timori, malattie. Il romanzo affronta la nozione di sconfitta in diversi modi, come quando si tiene un oggetto tra le mani e lo si fa girare per osservare come la luce crea immagini diverse su ogni lato. Alla fine della storia si evince che la condizione degli sconfitti è quella in cui si muove l’intera umanità. Non è forse neppure un male, quanto un punto da cui partire, e come i due pilastri su cui riposa da sempre la guerra, vale a dire la vittoria e gli eroi, in realtà non esistono o sono destinati a dissolversi.

Le grandi battaglie descritte sono state soprattutto degli enormi massacri, il cui ricordo ha cambiato per sempre anche i vincitori. La prima vera vittima in tutte le guerre, che si trionfi o si perda, è la nostra umanità?
Per certi versi sì. Il filo conduttore tra i personaggi e le vicende storiche che cito nel libro, quasi uno spaccato delle tipologie di guerra che si sono succedute fino a oggi, da quelle intraprese dall’impero romano, ai conflitti civili, fino a quelle dell’epoca coloniale e all’attuale scontro con gli jihadisti, risiede nel far emergere l’aspetto paradossale della vittoria. Da un lato tutti i protagonisti hanno rinunciato a parte della loro umanità; dall’altro, se osservate sul lungo periodo, anche le esistenze dei vincitori risultano contraddittorie e infelici. Prendiamo il generale Grant, che fu tra i trionfatori della guerra di Secessione. Malgrado combattesse per una causa giusta, quella dell’abolizione della schiavitù, in quello che fu uno dei primi conflitti in cui la tecnologia si è mescolata alla violenza, Grant assistette a una tale barbarie che non si sarebbe più ripreso. I suoi problemi con l’alcol si sarebbero fatti sempre più drammatici e la sua stessa esistenza finì per essere annichilita.

Lei sembra interessato al modo in cui le tracce della Storia riemergono e spesso condizionano la nostra vita pur se non ne siamo consapevoli. Mariam che ricorda Antoine Poidebard che, negli anni Trenta, inventò l’archeologia aerea fotografando dall’alto le vestigia della Mesopotamia, pressoché invisibili alle popolazioni della zona…
In effetti, ciò mi affascina. Penso ai paesi del Mediterraneo e del Medioriente e alla stratificazione di tracce che le diverse civiltà hanno lasciato in ogni luogo. Amo perdermi ad ascoltare l’eco del passato che si respira dove città, porti, templi o cimiteri spesso antichissimi sono sotto i nostri piedi e non smettono di far sentire la loro presenza nel presente. Spesso però non ci rendiamo conto di cosa significi muoversi su centinaia se non migliaia di anni di Storia.
Eppure, ce ne dovremmo ricordare visto che oggi c’è chi minaccia questa eredità, chi intende attaccare la natura molteplice da cui veniamo, il modo in cui le radici, le tradizioni e le culture si sono mescolate nel corso del tempo fino a formare un grande ibrido. E tutto per affermare la legittimità di una sola fonte originaria, un solo ceppo cui attingere. Penso all’estrema destra come agli jihadisti.

Un sentimento che emerge dal modo in cui Mariam osserva in diretta tv lo scempio compiuto dagli uomini dell’Isis nelle sale del museo di Mosul e il loro «terribile piacere nel cancellare la Storia»…
Oggi chi si sente onnipotente, come i terroristi, cerca di imporre la propria volontà sia cancellando la Storia che rivestendola di menzogne. Lo hanno fatto a Mosul, a Palmira e ancor prima in Afghanistan. Personalmente non sopporto l’idea che i miei nipoti non potranno più vedere i Budda giganti di Bamiyan o i templi di Timbuktu.
Questo nuovo oscurantismo portato dalle bandiere nere degli jihadisti vuole distruggere le statue, i libri, cancellare l’arte e la poesia, imprigionare le donne. Credo che nelle nostre città, a cominciare da Parigi dove vivo, o Barcellona, l’ultima a essere stata colpita, la resistenza si esprima continuando a godere di ciò che amiamo. E anche scrivere è una forma di lotta per non rimanere prigionieri del terrore che ci vorrebbe muti. «Non lasciate che il mondo vi rubi le parole», scriveva il poeta palestinese Mahmud Darwish.

Nella sua opera, come nel suo impegno civile a fianco di organizzazioni come Amnesty International, emerge la visione di un’Europa terra meticcia. Una narrazione opposta a quella all’insegna della paura e dell’identità che caratterizza oggi il dibattito sull’immigrazione, non le sembra?
Il mio contributo alle campagne in favore dei profughi iracheni, come delle persone che vivevano nella cosiddetta giungla di Calais, sono andate di pari passo con la mia idea di Europa. Quella dell’immigrazioneè una sfida decisiva per le nostre società, non solo una questione umanitaria, ma qualcosa che ha che fare con la filosofia stessa attraverso la quale vogliamo definirci collettivamente.
Viviamo in una zona di prosperità economica che intende chiudere le proprie porte al resto del mondo, pensando che così preserverà la sua ricchezza, o piuttosto in uno spazio geografico e umano che ha ancora memoria delle tracce che le diverse migrazioni le hanno lasciato in dote nel corso dei secoli e di quando i suoi stessi cittadini sono stati a loro volta migranti? Nell’accogliere degnamente chi arriva non si tratta di essere «buoni», quanto di riconoscere fino in fondo se stessi.

Accanto ai generali del passato nel romanzo incontriamo un protagonista dei conflitti contemporanei, l’agente segreto Assem, che sfugge però ai cliché dello spione, cita i versi di Pasolini e Kavafis e sembra attraversato da dubbi più che da certezze…
Incarna la figura dell’uomo d’azione. Con lui intendevo anche portare a compimento il percorso dell’intero libro e così ho immaginato qualcuno abituato a eseguire gli ordini automaticamente, senza dover riflettere, vista la sua formazione militare – non c’è guerra senza ubbidienza. A un certo punto inizia a interrogarsi su ogni cosa.
Il rapporto che ha con la poesia serve a questo: le parole e lo sguardo dei poeti sul mondo sono spesso un po’ misteriose, sorprendenti, impressioniste, talvolta perfino destabilizzanti.
E così lui, che ha ubbidito per tutta la vita, si accorge che questo quel riflesso condizionato lo sta abbandonando, sostituito da domande a cui intende cercare una risposta. Una buona notizia per lui come per tutti noi.