Alla metà del Settecento, l’erudito tedesco Johann Winckelmann decretò che con l’arte greca del periodo classico l’uomo aveva raggiunto l’acme della sua espressione estetica. Secondo lui, già dopo Alessandro Magno, morto nel 323 a. C., la forma cominciò a disgregarsi, e qualche secolo dopo i Romani non fecero altro che imitare pedissequamente i Greci. Da allora l’arte romana fu relegata in una condizione di inferiorità, senza possibilità di redenzione estetica.
Ci volle un secolo e mezzo perché due viennesi, Alois Riegl e Franz Wickhoff, a cavallo tra Otto e Novecento, studiando la produzione figurativa successiva alla caduta dell’impero d’occidente (476), sottraessero l’arte romana a quella condizione di marginalità. Indagando le miniature bizantine, le stoffe copte e altri oggetti simili, ribaltarono il punto di osservazione: invece di giudicare l’arte romana tenendo come metro di giudizio il modello greco più antico, cercarono di delinearne forme e significati, le cui tracce individuavano nell’epoca successiva.
Fu l’inizio di un lungo percorso di rivalutazione dell’arte romana e delle sue funzioni nella vita quotidiana del cittadino dell’Urbe e delle province dell’impero. In realtà, dal momento in cui Roma conquistò militarmente la Grecia e l’Oriente ellenizzato (II sec. a. C.), rimanendone conquistata culturalmente, secondo la celebre frase di Orazio, divenne un luogo di sperimentazione per i numerosi artisti che ora si trasferivano là dove c’era richiesta, artisti che usarono in modo libero un vasto repertorio di forme prese dal mondo greco e lo riadattarono alle esigenze di una società multiforme e dalle ricchezze enormi come, appunto, quella romana.
Poteva accadere che un’Afrodite che reggeva uno specchio o uno scudo, creata nel IV sec. a. C., fosse avvicinata a un Ares del V: tolto lo specchio, le braccia protese diventavano un gesto amorevole; se poi al corpo femminile e a quello maschile invece dei volti idealizzati si aggiungevano quelli realistici di una matrona romana e di un severo cittadino, ecco che ne derivava un’immagine nuova: una coppia, forse imperiale, raffigurata sotto forma di Marte e Venere.
Qualcosa del genere accadde anche con la celebre statua di bronzo raffigurante una Vittoria alata, pezzo forte del Museo di Santa Giulia a Brescia. La statua fu scoperta il 20 luglio 1826: fu trovata coricata, con le ali rimosse, nell’intercapedine occidentale tra il magnifico Capitolium dell’età di Vespasiano (69-79 d. C.) e le pendici del colle Cidneo. Insieme alla statua era stato nascosto anche un ammasso di bronzi (ritratti, decorazioni architettoniche, pettorali di cavalli ecc.), compresi in un arco di tempo tra il I e il III sec. d. C. L’opinione prevalente è che questi materiali preziosi fossero stati nascosti intenzionalmente per preservarli in una circostanza di pericolo.
La Vittoria divenne subito l’orgoglio della città di Brescia e fu esposta nell’allora Museo Patrio, dopo averla integrata: furono aggiunti braccia posticce in bronzo, uno scudo ovale appoggiato al ginocchio sinistro, un cesello con cui la figura ci scrive e un elmo sotto il piede sinistro. Nel 1834, l’archeologo bresciano Giovanni Labus coordinò i restauri della statua: le furono riagganciate le ali tramite i fori e le sporgenze posti sulla schiena, e le braccia originali vennero sorrette da un’armatura metallica interna. Labus ipotizzò che fosse stata realizzata nell’età di Vespasiano, servendo da modello per la Vittoria a rilievo che, sulla Colonna Traiana, separa le scene della prima dalla seconda campagna dacica.
Messa in salvo fuori Brescia durante la seconda guerra mondiale, al termine del conflitto la scultura fu ricollocata nel Capitolium, finché nel 1998 venne trasferita al nuovo museo della città allestito nel complesso di Santa Giulia. Dopo venti anni circa, la Vittoria è stata daqualche tempo trasferita all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, uno dei centri di eccellenza del restauro in Italia e nel mondo, per essere sottoposta a nuove analisi, prima di venire ricollocata, nei mesi prossimi, nell’ala est del Capitolium, in un allestimento disegnato dall’architetto spagnolo Juan Navarro Baldeweg; per l’occasione sarà anche organizzata la mostra Vittoria. Il lungo viaggio di un mito.
In Grecia come nell’impero romano l’eccezione era la pace, non la guerra; si viveva in continuo stato di guerra, perciò nei santuari e nelle piazze proliferavano statue di vittorie, la cui personificazione accomuna Greci e Romani. Per quanto ne sappiamo, a Roma il primo tempio destinato al culto della Vittoria fu dedicato all’inizio del III sec. a. C. sul Palatino, in un’epoca in cui in generale si assiste a una proliferazione di fondazioni di templi dedicati a divinità che derivano da personificazioni di qualità del cittadino: Salute, Onore, Virtù, Fede, Speranza eccetera. Nel mondo romano la Vittoria viene rappresentata secondo numerose varianti: in trono, sul globo, con il carro e con uno scudo in mano, come nel caso di Brescia.
Per lungo tempo, l’interpretazione della Vittoria di Brescia è stata viziata da un equivoco: che la statua fosse stata realizzata in Grecia, forse nel IV-III sec. a. C., e rappresentasse Afrodite che si specchia nello scudo di Ares, retto con entrambe le mani. Sarebbe giunta a Roma come frutto di una razzia e, con l’aggiunta delle ali, trasformata in una Vittoria alata. Le ricerche più recenti hanno consentito di abbandonare questa ipotesi, che si basava su analisi generiche del bronzo risalenti all’inizio del Novecento. È stato dimostrato che le due sporgenze che servono per tenere in sede e dare la corretta posizione alle ali furono fuse insieme al corpo della statua, concepita perciò fin dall’inizio come una Vittoria alata.
La statua di Brescia rientra in una lunga tradizione iconografica: dopo la scoperta tutti furono concordi nel metterla in relazione con una statua conosciuta come ‘Afrodite Capua’. Personalmente penso che l’immagine non derivi da un’Afrodite vanitosa che si specchia, ma da quella bellicosa venerata sull’Acropoli di Corinto. La posizione delle braccia, con la sinistra alzata e la destra allungata, lo sguardo dritto oltre l’orlo dello scudo, indica che Afrodite non si specchiava ma scriveva sullo scudo, perciò l’immagine fu usata per la dea della vittoria. Una copia con braccia e scudo, ritrovata in Turchia negli anni ottanta e databile al II sec. d. C., mostra infatti la dea nell’atto di scrivere con la mano destra sull’arma. Sulla derivazione della Vittoria di Brescia dall’Afrodite Capua non avrei dubbi: la sua testa ne è una vera e propria replica.
La Vittoria che scrive sullo scudo è la personificazione della pratica reale di dedicare le armi del nemico alla divinità cui era dovuto l’esito propizio del conflitto bellico: la superficie dello scudo era perfetta per un’iscrizione. La Vittoria di Brescia ha appena terminato di tracciare un’iscrizione su uno scudo, un tempo retto in alto con la mano sinistra; sotto, lo scudo poggiava probabilmente sulla coscia sinistra, forse su un perno a forcella.
La domanda è: quale successo militare celebrava la Vittoria di Brescia? Una risposta univoca, come accade sovente in archeologia, non si può dare, ma nel catalogo della mostra prossima ventura i visitatori potranno trovare risposte a questa e ad altre domande, attraverso un percorso che dalla Vittoria greca (Nike) arriverà fino all’arte contemporanea