Da principio, sembra una nuvola di polvere posatasi sulle pareti, un’opera in perfetta sintonia con il concetto di evanescenza che attraversa tutta la 14/ma edizione della Biennale di Lione (visitabile fino al 7 gennaio 2018).
Poi, però, a uno sguardo meno distratto, quelle macchie che si sovrappongono in un gioco di ombre e tracce, si rivelano essere dei timbri giustapposti. Ondate di timbri che si perdono all’infinito riportando le scritte, confusamente impresse una sull’altra, Forever Immigrant. È questa specialissima wallpaper del portoghese Marco Godinho (realizzata nel 2012) ad accogliere il visitatore alla Sucrière, l’ex zuccherificio della città che da anni ospita le installazioni di questa rassegna. Risponde pienamente alla poetica del frammento voluta dalla curatrice Emma Lavigne e sarà una delle poche opere a inserirsi nella cronaca dei nostri tempi, in una mostra che tende a scartare dall’attualità – pur richiamandosi più volte, nel suo assetto teorico, alla «modernità liquida» di baumaniana memoria – affidandosi non ai rigurgiti delle rivolte sociali, ma al vento, al gocciolare dell’acqua, all’immaterialità dei suoni, all’incertezza di materiali che possiamo intuire solo in dissolvenza.

Instabili connessioni
A quelle impronte sul muro che invece parlano dell’ostilità burocratica di un mondo che si rannicchia su se stesso, fa eco, poco oltre, il Cloud Canyon di David Medalla (artista filippino che ha vissuto nomadicamente tra Londra, New York e Berlino fino al 2016, anno della sua morte): è una macchina gigantesca per fare bolle schiumose risultato di un intricato tappeto di osservazioni tratte dalla vita reale: quel monumento all’effimero nacque nel 1963 quando Medalla miscelò insieme il ricordo di una fabbrica di saponi marsigliesi, con quello di un birrificio scozzese, delle nuvole che correvano nel cielo del suo paese e del latte di cocco preparato da sua madre.

Così tra il Mac, la Sucrière e anche il Dôme dell’architetto e ingegnere Richard Buckminster Fuller (ricostruito per l’occasione e trasformato in casa temporanea del lavoro di Céleste Boursier-Mougenot, Clinamen, una grande vasca circolare piena d’acqua che produce musica grazie alle collisioni fra scodelle che si muovono in superficie quasi danzando) la Biennale di Emma Lavigne – invitata dal direttore artistico Thierry Raspail a interpretare la parola «moderno», che si ripete in trilogia e seguendo diverse accezioni – procede inciampando nella nozione di stabilità» e ribaltandola, trasformandosi così in un enorme poema dello spazio dai confini sdrucciolevoli.

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La musica della foresta
Mondes Flottants è il titolo di una rassegna che non deraglia mai dal suo nucleo concettuale e s’inventa «arcipelaghi di sensazioni», facendo della circolazione (anche dell’aria stessa) un suo pilastro fondante. Anche quando si rende omaggio al Pompidou (Lavigne dirige la sede di Metz, dalla cui collezione ha pescato a piene mani per allestire la sua Biennale) con alcune opere lì custodite, la tensione non scende. Fontana, Burri, Dadamaino possono allora dialogare in uno stretto legame emotivo con il brasiliano Ernesto Neto e le sue forme biomorfe che mimano architetture precarie nella giungla amazzonica, così come Duchamp e la sua Mariée mis à nu par ses célibataires même in miniatura non vengono arginati dal paesaggio sonoro della metaforica «foresta» di David Tudor, compositore americano che fece il suo apprendistato musicale con Cage. L’immersione è totale, ogni scultura fischia, canta, gracchia.
È un lavoro storico il suo, come molti altri esposti, a dimostrazione del fatto che per affrontare la modernità non servono orologi che battono il tempo né sistemazioni cronologiche del proprio pensiero. E che per rappresentare l’ukiyoe occidentale, il mondo fluttuante dell’assoluta impermanenza, non è necessarioindossare la museruola dell’eterno presente.

Uno spazio poroso
Emma Lavigne confessa di essere partita da Baudelaire, dalla sua idea di contingente e di averlo poi declinato insieme alle pratiche di Fluxus per orchestrare uno spazio mobile, mai identitario, sempre mutante, poroso. Come appiglio, offre anche L’opera aperta di Umberto Eco che, pur a distanza di più di mezzo secolo, secondo lei non ha persola sua verve filosofica, poiché l’indeterminatezza è la scivolosa realtà che ci circonda e allo spettatore non resta che essere attivo, nuotare consapevole nella liquidità del suo mondo, che poi, nella sua fluidità sbandiera, è il medesimo di Joyce o Debussy. Una mostra in forma di ballata: la definisce così la curatrice per introdurre l’«ascolto» dei rimandi, dalla pioggia elettronica ai vagabondaggi spazio-temporali fino ai circuiti di connessioni che si ripetono senza sosta. La nuvola di Hans Haacke che viene agitata dal vento è a terra, celebrando un pavimento rischioso e impossibile da percorrere, anti-forza di gravità. Mentre la tela di Lygia Pape (artista brasiliana scomparsa nel 2004) che inghiotte i corpi cannibalizzandoli, allo stesso tempo crea «comunità» reinventando una geografia mobile, che respira. Ma l’opera che più riassume quel tentativo di simulare l’incertezza sentimentale dell’esistenza e l’irragiungibilità delle leggi di natura, è forse quella del francese Dominique Blais, Phases of the Moon.

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Seguendo il cammino della luna, l’artista ha spedito una serie di pacchi alla Biennale: in ognuno era racchiusa una sfera in vetro (dal bianco al nero) in modo che potesse rispecchiare le diverse fasi dell’astro celeste. Dinamico, labile, caduco – un pacco è andato perduto e il suo «momento» lunare smarrito per sempre – quell’impegno di testimonianza è fragile come la materia che interpreta la luna. Il territorio dell’esplorazione che si dispiega a Lione finisce così per avere la consistenza dei sogni. E, come scriveva proprio Baudelaire, le nuvole – forme fantastiche e luminose, oppure tenebre oscure – sono orizzonti srotolati, sgualciti, strappati. Bisogna imparare a perdersi in quei filamenti.