È il giugno del 1922 quando il conte Aleksandr Il’icˇ Rostov è condannato da un tribunale del popolo a trascorrere il resto dei suoi giorni agli arresti domiciliari all’interno del Grand Hotel Metropol per essersi «irrevocabilmente arreso alle corruzioni della propria classe sociale». Se mai dovesse mettere il naso fuori dall’albergo, che si trova nel cuore di Mosca, sarà immediatamente fucilato. Si apre così Un gentiluomo a Mosca (Neri Pozza, pp. 560, euro, 18,50), seconda prova narrativa dello statunitense Amor Towles, a lungo operatore finanziario prima di dedicarsi stabilmente alla letteratura, che aveva debuttato alcuni anni orsono con La buona società, affresco della società americana degli anni Trenta molto apprezzato dalla critica d’oltreoceano. In questo caso, la reclusione forzata del protagonista, uomo colto, arguto ed elegante, «i baffi incerati distesi come le ali di un gabbiano», si trasformerà, anche grazie all’incontro determinante con Nina Kulikova, una bambina i cui genitori non faranno ritorno dai gulag, nella scoperta di un mondo cui si schiuderanno le pareti delle suite art déco dell’hotel, rivelando, lungo l’arco di mezzo secolo, le trasformazioni e i tanti volti di un paese e della sua cultura.

Un uomo prigioniero in un albergo: come è nata l’idea di questo romanzo?
Per più di vent’anni ho lavorato per una società finanziaria e ho viaggiato in continuazione. Negli hotel mi capitava di incontrare sempre le stesse persone che magari svolgevano attività simili alla mia. Una volta, entrando nella hall di in un albergo di Ginevra, dove ero già sceso nove o dieci volte, mi è sembrato di scorgere le stesse persone dell’anno precedente, come se non se ne fossero mai andate. Così ho cominciato a pensare a qualcuno che fosse costretto a restare per anni in un hotel.

Perché ambientarlo in Russia all’indomani della rivoluzione?
Malgrado non parli la lingua e sia stato nel paese poche volte, sono innamorato della cultura russa, quella del periodo compreso tra gli anni Venti e Trenta, su cui ho letto molto, visto diversi film e ascoltato tanta musica. Perciò ho scelto di mettere insieme queste due mie passioni per scrivere il romanzo. Il fatto che il protagonista, il conte Rostov, sia un aristocratico formato nelle migliori scuole del paese mi ha consentito di farlo discorrere abitualmente di Gogol, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, ma, vista la grande creatività dell’epoca, di mostrare anche interesse anche per le avanguardie, da Majakovskij, a Malevich, fino a Eisenstein. Poi, ho ricostruito il clima e le tendenze del tempo attingendo a diverse fonti, come le memorie di Harrison Salisbury, uno degli ex direttori editoriali del New York Times, che, oltre ad essere stato un mio caro amico, era stato il capo dell’ufficio di Mosca per il Times tra gli anni Quaranta e Cinquanta. A guidarmi è stata però anche l’idea che dalla sua prigione dorata il conte potesse osservare alcune contraddizioni della storia russa che mi avevano particolarmente colpito. Cito solo un esempio.
Negli ultimi anni è stata ricostruita, solo grazie ai disegni realizzati in segreto da Peter Baranovsky, l’architetto responsabile dello smantellamento, la cattedrale di Kazan, edificata nel 1636 per commemorare la liberazione di Mosca e rasa al suolo nel 1936 per lasciare spazio alle parate militari sulla Piazza Rossa. Tutto ciò, dal mio punto di vista, non significa che il passato ritorna sempre o cose del genere, quanto piuttosto che insieme allo sforzo collettivo per un futuro più luminoso del paese, in Russia c’è sempre stato spazio anche per alcuni individui stoici che hanno lavorato in solitudine affinché i propri concittadini non perdessero nulla della loro cultura.

Il vero protagonista sembra essere il Grand Hotel Metropol, cosa l’ha attratta di più nella storia di questo albergo?
Proprio il fatto che ha attraversato l’intera storia recente del paese, divenendone una sorta di testimone. Il Metropol fu costruito nel 1905 e si trova ancora lì, celebre e accogliente. Il primo paradosso che mi ha colpito è che anche in epoca sovietica rappresentava una sorta di oasi di lusso, e se si vuole di libertà, nonostante fosse ubicato a pochi passi dal Cremlino e solo a qualche isolato dal quartier generale dei servizi segreti. Dopo la rivoluzione fu sequestrato dalle autorità che avevano bisogno di sedi per i loro uffici. Più tardi, mano a mano che i governi europei riconobbero il nuovo Stato bolscevico, l’albergo fu destinato a ospitare i diplomatici e gli uomini d’affari presenti in città. Da quel momento, il Metropol è diventato una specie di simbolo della città, in cui hanno soggiornato anche scrittori e artisti: chi passasse per Mosca non poteva non dormire o cenare lì. Così, a noi sono arrivate, tra le altre, le pagine dedicate al loro soggiorno in questo albergo da John Steinbeck, E. E. Cummings o Lillian Hellman.

Dopo il suo debutto con «La buona società», ambientato alla fine della Grande Depressione, anche in questo romanzo esplora le vicende dei primi decenni del ’900, perché tanto interesse per quel periodo?
Non si tratta né di un amore particolare per la Storia, né tantomeno di una qualche nostalgia per un’epoca passata. Piuttosto, ciò che mi attrae nelle vicende di quel periodo sono i riflessi che in qualche modo sembrano far sentire ancora in ciò che viviamo oggi. Questo, oltre a rappresentare un’escamotage narrativo per cui i lettori sentono una qualche familiarità con quella stagione che non è poi così lontana, ma senza averne per lo più una conoscenza di prima mano. Il che mi offre la libertà di esplorare il confine sottile, ma estremamente stimolante, tra ciò che appare reale, per quanto incredibile, e ciò che è frutto invece di una convincente immaginazione.

Sia come operatore finanziario che come scrittore le sembra che la crisi attuale assomigli a quella che portò al crollo di Wall Street del 1929?
In realtà, ho iniziato a scrivere La buona società nel 2006, vale a dire prima della caduta della Lehman Brothers e dello scoppio della bolla speculativa immobiliare. Però si, credo che tra le due crisi vi sia più di un punto di contatto. In particolare il fatto che all’interno di questo sistema economico e finanziario esistono dei cicli ricorrenti di cui fanno parte sia le crescite che i crolli repentini: è il sistema stesso a funzionare così.
Di ciò che fece seguito al crac del ’29 mi interessava soprattutto il modo in cui – lungo un intero decennio, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939 – gli americani si fossero misurati con una fase straordinaria della loro storia. Fermenti sociali, guidati dalla mobilitazione sindacale e dall’azione dei movimenti socialisti, hanno coinciso con il definitivo affermarsi anche presso i bianchi del jazz, così come con la stagione dei film interpretati dalla coppia Fred Astaire/Ginger Rogers, o quelli dei fratelli Marx. C’era disperazione, rabbia e voglia di cambiare le cose, ma anche follia e un desiderio diffuso di felicità. Forse, come ora.