Tra gli scrittori del Giappone moderno, Natsume Soseki è probabilmente il più amato: la sua popolarità travalica la sfera strettamente letteraria e investe il personaggio, raffigurato sulle vecchie banconote da mille yen e riproposto su oggetti di uso quotidiano, oltre che in fumetti, sceneggiati televisivi e pubblicità. Una risposta a quali siano le ragioni di tanta benevolenza e a cosa, in Soseki e nella sua opera, scateni l’affetto di generazioni di lettori sta forse nella sua figura di uomo tormentato e al tempo stesso autorevole, afflitto da quelle stesse nevrosi e idiosincrasie che riversò nel professor Kushami, uno dei personaggi di Io sono un gatto, il suo esordio romanzesco, datato 1905, nato come via di fuga dall’esaurimento nervoso in cui era caduto.

Il gatto nero protagonista dell’opera è indissolubilmente legato alla figura del suo ideatore e il suo sguardo spassionato e beffardo, oggi come allora, svela i nodi e smaschera le contraddizioni di quella che fu la «nuova epoca» del Giappone, quella del governo illuminato (Meiji), che ebbe inizio nel 1868.

Anche le vicende cui andò incontro lo scrittore ne testimoniano il travaglio, a partire dalla scelta di allontanarsi dalla capitale dopo la laurea per andare a insegnare in due province remote, prima Matsuyama (esperienza che gli avrebbe fornito il materiale per il romanzo Il signorino del 1906) e poi Kumamoto. Ma soggiornò anche all’estero come borsista del Ministero dell’Istruzione, tappa importante nella carriera della futura classe dirigente: quella che molti colsero come un’occasione formativa fondamentale, per Soseki fu un’esperienza dolorosa che, pur ampliando il suo orizzonte culturale, ne minò ulteriormente il già fragile equilibrio psicologico.

In nome della coerenza
Nel 1907 lasciò poi il suo prestigioso incarico presso l’Università imperiale di Tokyo per dedicarsi completamente alla scrittura, e nel 1911 rifiutò il titolo di dottore in lettere che il Ministero dell’Istruzione voleva conferirgli, rispondendo che fino ad allora era stato conosciuto come «un certo signor Natsume» e tale voleva continuare a sentirsi.
Il rifiuto di una buona posizione sociale a vantaggio della propria coerenza intellettuale è un tema che si riverbera in vari personaggi delle opere di Soseki, ma la questione che informa gran parte della sua opera è più ampia e riguarda la solitudine dell’uomo moderno di fronte al mutare dei tempi e alla disgregazione dei rapporti affettivi. Tanto in E poi (del 1909), quanto in La porta (del 1910) e dunque in Anima (del 1914), Soseki elabora l’evoluzione di un tema classico, l’antitesi tra senso del dovere e aspirazioni personali, nelle mutate condizioni sociali di un Giappone avviato alla modernizzazione su modelli mutuati dall’occidente.

Se per i protagonisti adulti questa antitesi si è risolta in scelte che li hanno portati all’allontanamento dalla società, e a una quotidianità compromessa dal senso di colpa, per i giovani si traduce invece in immobilità, nell’incapacità di decidere per una delle possibili opzioni. Anche Fino a dopo l’equinozio appena uscito da Neri Pozza (pp. 391, € 18,00) nell’elegante traduzione di Andrea Maurizi (che restituisce tutto il fascino della prosa di Soseki) ripropone temi analoghi. Il protagonista Keitaro appartiene a quella che oggi, con un infelice neologismo, diremmo generazione ‘né-né’ (neet in inglese): laureato ma senza prospettiva di impiego, sprofonda in uno stato di abulia a cui soltanto i racconti del signor Morimoto, «un uomo mediocre ricco di esperienze straordinarie», portano temporaneo sollievo. Quando quest’ultimo scompare nel nulla, altri due personaggi antitetici fanno la loro apparizione nell’universo omosociale del ragazzo: l’imprenditore Taguchi, personificazione dell’uomo di successo dell’epoca Meiji, e Matsumoto, intellettuale benestante che si dedica in disparte a un’esistenza edonistica. Attraverso la loro frequentazione, e il confronto con l’amico Sunaga, Keitaro cercherà la propria strada nel mondo.

Un dramma ciclico
Affine al romanzo Sanshiro (del 1908) e originariamente pubblicato a puntate nel 1911, Fin dopo l’equinozio è narrativamente eterogeneo sia sul piano tematico sia su quello temporale e – anticipando la struttura di Anima – antepone il presente al passato. La disomogeneità nasce, peraltro, da una scelta deliberata: fin dalle prime pagine Soseki dichiara beffardo: «posso senz’altro già affermare che non sarà facile stabilire in quale grado i racconti siano autonomi o interconnessi. E la cosa non mi disturba affatto». Al lettore non resta dunque che imitare Keitaro e meditare sul dramma ciclico dell’uomo, perennemente in bilico tra insoddisfazione e felicità.