L’inizio è un classico di tutti i regimi, bimbi in divisa inneggiano alla patria e salutano romanamente. Poi le immagini ci portano in strada, nel 2011, quando in molti, soprattutto giovani, urlano contro il dittatore Bashar al-Assad, chiedendo libertà per cristiani e musulmani.
Siamo all’inizio del film Fi al-thawra, durante la rivoluzione, che per la prima volta il collettivo Abounaddara ha deciso di non presentare come anonimo: lo ha attribuito a Maya Khouri che per moltissimi anni ha raccolto migliaia di ore di materiale visivo che sono diventate ora 144 minuti di rara intensità. Perché in Siria dopo le iniziali speranze è guerra da tempo e si scontrano interessi contrastanti perché in campo ci sono l’esercito di Bashar al-Assad, i curdi, l’Isis, i sunniti, gli alauiti, i combattenti laici, alle spalle ci sono i raggruppamenti di potenze straniere con Russia e Usa attivissimi a capo degli schieramenti.

UN AUTENTICO ginepraio che il racconto del film lascia perdere molto in fretta per seguire le vicende di un gruppo di oppositori laici che all’inizio cercano di elaborare strategie, anche con gli altri, poi, un po’ alla volta, la situazione cambia e devono imbracciare i mitra e sparare. Ma le immagini non puntano sugli aspetti «storici» bensì su quelli più personali e umani. Ecco un dirigente appena uscito di galera che si mette il cerotto sul tallone perché le scarpe gli fanno male e vanno a sbattere proprio ldove i carcerieri lo appendevano con apposite manette a testa in giù. Sono questi i momenti che Khouri e i suoi hanno voluto e saputo cogliere per metterli in un racconto che mostra soprattutto gente comune.

Ecco allora un soldato che ha disertato, cerca di fare teatro e manifesta pietà per i suoi ex commilitoni intrappolati in una macchina mostruosa. In un altro momento un uomo anziano in una città bombardata e devastata, sta cercando di ripianare un ondulato metallico, arriva un altro uomo che lo aiuta, così poi insieme ripristinano la saracinesca di un negozio-abitazione che una volta srotolata disvela la scritta «bombardate finché volete, non ce ne andiamo».

IN ALTRI momenti alcuni protagonisti parlano, le luci sono accese, ma anche i lumini, perché l’elettricità salta. La normalità è dissolta, ma le persone che sopravvivono cercano di mantenerla, come l’autista di un’auto che vaga per la città completamente deserta, ma suona il clacson agli incroci. O ancora quando un uomo porta un bimbo ferito mentre un fotografo cerca sempre di precederli per fare «la foto». Le immagini del film invece sono cariche di pudore, chi porta in braccio il ferito è visto da dietro. Sono piccoli segnali, ma significativi, su quello che non vuole essere un documentario di guerra che spieghi, l’intento è quello di far provare empatia verso chi vive in un paese martoriato in cui il nemico è il regime, ma soprattutto il contesto che stritola un’intera popolazione. E l’uso della tecnologia è finalmente lontano dalla vacuità dei social media a base di selfie e influencer, perché utilizzata per raccontare quelle persone che talvolta si lasciano anche andare a momenti di disperazione, come verso la fine del film di fronte alla telecamera di Maya fa una giovane oppositrice attiva nella comunicazione.

L’AVEVAMO già incontrata in diverse occasioni, per esempio quando durante uno delle prime manifestazioni contro Assad si è resa conto che gli integralisti con le bandiere nere «hanno preso la testa del corteo» oscurando i laici. Uno tra i pochi momenti espliciti, perché l’urgenza, il fascino e la necessità di questo film sta nell’essere senza sottopancia che possano esplicitare, senza didascalie, in immagini di cinema capaci di parlare e di emozionare fuori dalle logiche politiche che in questo caso rischiano solo di rendere aride e inutili anche le sofferenze reali.