Gianfranco Tajana, ex professore di anatomia e di istologia, studioso rigoroso, dedica il suo tempo dall’inizio della pandemia allo studio delle ricerche sul Covid. Si districa con lucidità nel dedalo dei dati (gran parte dei quali sono stati invalidati, ma restano in circolazione) e invita alla prudenza interpretativa: il virus, attraverso le sue varianti, circola con più velocità rispetto al tempo di cui gli studiosi hanno bisogno per conoscerlo adeguatamente. Nel suo sito chiamato “Verso non dove”, in cui si trovano notizie attendibili sullo stato della conoscenza scientifica sul Covid, ha pubblicato recentemente un video sui malati di Covid morti intubati, isolati dai loro cari e dal resto del mondo.
Nel video c’è solamente una manciata di foto di anziani e di giovani, di donne e di uomini. In sovrimpressione i loro ipotetici ultimi pensieri prima di morire.

Il video è commovente per il modo con cui è costruito. Cosa pensano le persone chiuse in una stanza d’ospedale senza sguardo sul mondo, quando realizzano che sono senza via d’uscita e già assegnati al destino di reperti fotografici?
L’annebbiamento viene loro in soccorso, forse al posto di pensare sognano? Non sapremo mai cosa hanno davvero pensato e il loro ultimo sogno, l’ultimo loro sguardo al mondo che persiste per un poco a occhi chiusi (sostenuto dall’ultimo sussulto del loro desiderio), è come il primo sguardo di un neonato sulla vita: così intimo da non poterlo immaginare, raffigurare.

Perché vogliamo pensare i pensieri ultimi di chi ci ha lasciato, nel momento in cui si rende conto che sta per andarsene e noi non ci siamo per rivolgerci una parola, per tenergli la mano? Perché pensandoli, continuiamo a farlo vivere, diventiamo il suo lascito vivente. Così manteniamo vivo il nostro amore.

La morte per Covid ci sconvolge perché colpisce nel mucchio (al posto dei colpiti potevamo essere noi). Tuttavia i funerali senza cortei funebri di Bergamo, le fosse comuni di morti di Covid nel Bronx (senza ultima dimora, senzatetto per sempre) sembrano oggi lontani (breve è il tempo della nostra memoria vivente, “attiva”). Non abbiamo cancellato i ricordi, ma li abbiamo emotivamente sospesi. La posta in gioco è molto grande per reggerla in questa nostra società tanto precaria da rifugiarsi nel lockdown più opprimente: la concretezza. Si tratterebbe di poter vivere il più importante dei lutti, quello che rende possibile una comunità democratica e giusta: il lutto per coloro che avremmo potuto amare, che non potremo più amare, il lutto per tutti coloro che non incontreremo, o, incontrandoli, perderemo il momento, la prospettiva è il luogo adatto per amarli. Il lutto per i no-vax caduti e sbeffeggiati.

Il nostro amore privilegia i suoi oggetti, per poter acquistare intimità, intensità e profondità, ma non potrebbe essere libero e persistere come potenzialità, la condizione perché possa esistere veramente, se non si fondasse sulla spinta di riconoscere in ogni essere umano la possibilità di un investimento.
Checov lascia la vita dicendo “io muoio” in tedesco. Lascia il suo ultimo pensiero e le sue ultime parole in eredità a un’altra lingua, allo “straniero”: a chi, per tutta la vita, affidiamo l’estensione della nostra esistenza al di là dei limiti della personale esperienza.

Una giovane donna è morta, alla vigilia di Natale, nella fase più bella della sua vita, a causa di una invasiva, fulminea malattia. Poco prima della sua morte ha parlato a una sua amica di un suo sogno: stavano insieme, bambine, nuotando nel mare della loro infanzia, felici e serene. Forse, ha detto, è il segno che tutto si risolverà, che tornerà come prima. Ha lasciato così in eredità, agli amici e a tutti gli esseri umani che nuoteranno negli stessi mari della vita, il suo desiderio di vivere, oltre la morte. Certi vuoti non si colmano, sono testamentari: il desiderio dei morti deve vivere in noi. Li mantiene e ci mantiene vivi.