Dalle grandi manifestazioni di Piazza Tahrir che hanno portato nel 2011 alla caduta del trentennale governo di Mubarak sono passati dieci anni. Nel frattempo il regime di al-Sisi che ha conquistato il potere continua a imprigionare, torturare, uccidere voci critiche, giornalisti, studiosi, dissidenti, i diritti umani e civili sono azzerati, le donne subiscono continue aggressioni. E mentre l’omicidio di Giulio Regeni rimane senza verità né giustizia, Patrick Zaki è in carcere da un anno sottoposto a violenze.

MA COME l’immaginario si confronta con tutto questo? Se alcune voci importanti del passato sembrano essere uscite dal quadro – pensiamo a Yousri Nasrallah, discepolo prediletto di Yussef Chahine, il cui ultimo film, After the Battle (Dopo la battaglia) riflessione sulla rivoluzione di Piazza Tahrir, risale al 2012 – ora però è di nuovo sul set con The Legend of Zeineb and Noah – le generazioni più giovani provano a raccontare (e a raccontarsi) quanto accade in una forma che dialoga col presente.

Le registe soprattutto come abbiamo visto nel programma della scorsa Berlinale, a cominciare da due film, Souad di Ayten Amin (label Cannes 2020) e As I Want di Samaher Alqadi, palestinese radicata in Egitto. Due narrazioni cinematografiche molto diverse, entrambe con al centro il femminile, la prima in un racconto della giovinezza quotidiano, la seconda nelle documentazione che parte dagli stupri avvenuti a Piazza Tahrir nel 2013 per dare voce a testimonianze di donne che dopo la violenza hanno anche dovuto subire il silenzio.

Souad è il secondo film di Ayten Amin, autrice rivelata da un premiatissimo debutto, Villa 69 (2013), e poi di un documentario – presentato anche alla Mostra di Venezia – proprio sui movimenti di Piazza Tahrir – Tahrir 2011. Protagonista è una ragazza, la Souad del titolo, il paesaggio è quello di Zagazig, cittadina al Delta del Nilo, dove la giovane vive con la famiglia e la sorella più piccola.

Un’esistenza sotto controllo come accade alle ragazze – specie poi in un piccolo centro: velo, preghiera, uscite rarissime, insieme alle amiche (e con le sue Souad litiga anche molto) nelle stanzette si parla in libertà di ragazzi e di fantasie, ci si mette il rossetto, si balla, si fantastica un futuro. Il sesso è tabù, il corpo è negato dalla tradizione, dalla preghiera, dal padre che impedisce di respirare. E dalla paura dell’arroganza maschile, degli sguardi mai delicati, dei commenti pesanti che si appiccicano addosso. Souad per scappare si è inventata una «doppia vita» nello spazio virtuale dei social dove ha un amore, è libera, è ricca, si lascia fotografare, è seducente. E però: quanto questa schizofrenia può resistere?

Ayten Amin ha spiegato che il suo non vuole essere un film «femminista» ma la storia di una ragazza come tante altre, di una donna egiziana oggi come non si vede mai sullo schermo. Il resto, cioè il presente del Paese appare altrove, nel sentimento di un’oppressione costante o in quell’infelicità quotidiana delle ragazze che spinge Souad a un salto nel vuoto.

LA SECONDA parte del film si sposta sulla sorellina, Rabab, tredici anni e l’incertezza dell’età che la rende più forte, capace di tenere testa ai maschi anche adulti – come Ahmed il ragazzo di cui Souad si era innamorata, in fondo anche lui un simulacro online ricco e famoso – nella realtà piccola borghesia con aspirazioni da blogger e influencer. «Non mi innamorerò mai» dice la ragazzina, i due passano una giornata assieme a Alessandria, che non somiglia forse a quella di Chahine ma nel suo attraversarla al presente Amin ne coglie la resistenza al conservatorismo – pure se per baciare la fidanzata il ragazzo si deve nascondere – e la natura cosmopolita. E in quella sua volontà di dare voce a alle figure di ogni giorno, la regia di Amin con delicatezza scopre nelle loro esistenze un sentimento collettivo, restituisce l’Egitto delle classi, della frizione tra mondo globale e tradizioni, le emozioni negate, la voglia di vita.