«È un uomo che vive tra i piani alti e bassi, passa dalle cantine umide di Londra ai castelli della moda, schizza dettagli di strade, incroci, marciapiedi sui quali sbattono gli zoccoli delle ambulanti; traccia fisionomie di strade sventrate dalle palle dei cannoni…». Lui, l’uomo avido del moderno che si annida ovunque, nel recondito sottoscala pieno di detriti come nel salotto delle signore della grande borghesia è Costantin Guys, Il pittore della vita moderna, che fissa sulla società tardo ottocentesca lo stesso sguardo, lucido e veloce come un lampo che nel giro di pochi anni la fotografia avrebbe portato in giro per il mondo. 
Così lo ha chiamato Charles Baudelaire che conosceva la direzione di quegli occhi perché era la sua. Anche I fiori del male si portavano addosso l’olezzo dei poveri e dei morti in guerra, il ribrezzo macerato nelle descrizioni delle luride stanze abitate dagli emarginati della terra. Mostravano una bellezza nuova che si scioglieva etilica nei versi del poeta maledetto che invocava il corpo e gli odori della mulatta svergognata mentre si confrontava col mito della bellezza apollinea «sono bella, o mortali, come un sogno di pietra». Il ritratto di Guys, fremente di fame di modernità nasce dalle penne incrociate dei fratelli Goncourt e di Baudelaire ma riprende respiro e vita nel lavoro di Jeff Wall. Canadese, classe 1946, dichiara di voler essere il pittore della vita moderna come lo fu Guys a suo tempo. Wall inizia come storico dell’arte per passare presto la frontiera. Del 1978 è Destroyed room, una criptica composizione che prende spunto dalla Morte di Sardanapalo di Delacroix: emblematico della scelta di Wall che vede il secondo ottocento come uno scrigno di contraddizioni vitali, appesantito dai problemi socio-politici e affollato di pittori e di critici, che rivedono i canoni nei picnic e nei bar di Manet, nei barboni di Baudelaire e nelle descrizioni degli interni puzzolenti dei fratelli Goncourt.
Wall prende il testimone per costruire una visione della contemporaneità che si appoggia sui due pilastri del pensiero critico e del fare artistico. È stato uno dei primi a usare il light box, quelle gigantesche scatole luminose dalle quali occhieggiano universali inviti al consumo trasformandole in inquietanti fermi-immagine di scene spontanee ma costruite come un set cinematografico o pubblicitario, con un occhio spalancato sulla storia dell’arte, l’altro aperto alla riflessione critica sull’oggi.
Wall è oggi tra i più noti artisti e critici della sua generazione, è uno dei promotori del post- concettualismo fotografico nei primi anni settanta. Ha dialogato con autori della sua generazione: Rodney Graham e Dan Graham, Stephen Balkenhol, Roy Arden, On Kawara (Jeff Wall, Gestus, Scritti sull’arte e la fotografia, Quolibet Abitare, 2013) proponendo letture illuminanti del loro lavoro. Di recente è passato alla stampa fotografica su carta invertendo la posizione dell’autore e dello spettatore che si confronta con l’opacità del supporto dopo l’immersione nella profondità liquida del lightbox.
Da alcuni anni predilige dettagli di luoghi abbandonati e sporchi, spazzature degli interni borghesi che compone come quadri costruttivisti. La mostra al Pac di Milano (fino al 9 giugno, catalogo Electa) sarà ancora una volta l’occasione per suscitare amore e ripulsa, desiderio di sapere o secco rifiuto. Alcune opere recenti (2010-11) di Wall meritano una sosta più lunga. Tra queste Authentication (2010) che rinnova l’estetica di Wall.
Sulla scia di Paul Graham, quattro immagini propongono un racconto possibile: Claus Jahnke, storico del costume guarda dei cataloghi di moda. La costruzione delle scene è perfetta, l’illusione dell’istantanea è solida, i dettagli sono decisivi. Dai cataloghi di moda che Jahnke tiene in mano salta all’occhio una giovane donna che la mise invernale da montagna esalta nelle forme longilinee. Lei è Leni Riefenstahl, l’anno del catalogo è 1932, N. Israel è il negozio di abbigliamento, Berlino la città. L’ultima fotografia riprende una camicia linda e stirata. L’etichetta porta il nome N. Israel. Scattano come molle i rimandi alla storia europea più pesante, alle collusioni e alle cecità di chi nel 1932 era immerso nella melma etica e politica ma ne vedeva solo l’eleganza vestimentaria, all’ipocrisia di chi indovinava il futuro, ma si limitava a incollare sulla valigia l’etichetta di un tragitto a senso unico dall’Europa all’America. Le quattro fotografie di piccole dimensioni passano quasi inosservate rispetto alla gigantografia delle altre. Eppure gettano ponti tra un altroieri baudeleriano cosparso di miseria e bellezza e un ieri colmo di orrore e indifferenza verso un oggi dove, chiuso in se stesso, sta un giovane gigante, un sognatore moderno, forse un Baudelaire del terzo millennio. È uno degli ultimi lavori di Jeff Wall e si intitola Young men wet with rain.