Da quel puntino sulla mappa del Canada occidentale che è la cittadina di Wingham, Ontario, Alice Munro si rivolge da decenni al mondo raccontando le vicende dei suoi personaggi, che certamente non sono marginali, né «locali». Cominciò lavorando nel tempo sottratto alle cure domestiche, senza rivelare la sua «professione» nemmeno agli amici e ai vicini di casa, rifiutando ogni richiesta di apparire sulla scena letteraria, per arrivare, ora, al palcoscenico di Stoccolma, sognato da scrittori molto più ambiziosi di lei. Almeno in apparenza.
Perché Alice Munro aspira in realtà nientemeno che alla perfezione. Gli archivi di Calgary, custodi delle sue carte, traboccano di racconti scritti, riscritti, ripensati, corretti all’ultimo momento, sottratti alle pressioni degli editor, anche di quelli severi del New Yorker. E caparbiamente, ignorando le insistenze degli editori perché si decidesse a scrivere un romanzo, Alice è sempre rimasta fedele alla forma che predilige e le è più congeniale, fino a quando i critici non hanno dovuto coniare per lei l’espressione «autrice di racconti densi come romanzi», insistendo, forse inconsciamente, sul mai superato concetto che per essere scrittori veri si deve produrre qualcosa di «lungo».
In realtà non è la densità la caratteristica più evidente della scrittura di Alice Munro: ciò che la distingue da qualunque altra è quel procedere per sottrazione, quell’ignorare il trascorrere di anni o decenni tra un’esperienza e l’altra dei personaggi, quel trascinare il lettore avanti e indietro nel tempo, sempre lasciandogli spazio per immaginare soluzioni possibili, sorprendendolo poi con rivelazioni improvvise, squarciando il velo meticolosamente tessuto della narrazione con una sola frase essenziale ma densa di tutti i particolari necessari.
Per capire come Munro riesca nell’impresa di sondare e immaginare la realtà fisica e mentale dei personaggi che crea bisogna immaginarla bambina nella piccolissima città permeata di cultura protestante, di severità, di rigore, e della ritrosia tipiche dei dettami della religione presbiteriana, quella della famiglia di Alice. E di violenza, appena celata, spesso anche fisica. Alice osserva, critica e si ribella, legge e comincia a scrivere, attingendo alla realtà circostante e trasformandola.
Non a caso, il rapporto tra realtà autobiografica e invenzione artistica in Alice Munro è una questione di grande importanza: perché la giovane donna che fugge da Wingham, grazie a un matrimonio che la porta all’altro capo del paese, ubbidisce sì a un desiderio di libertà, a una vera e propria vocazione letteraria, ma soprattutto vuole mettere la maggior distanza possibile tra sé e la famiglia, tra sé e una madre ambiziosa e oppressiva, addirittura fisicamente violenta, come riconoscerà nell’ultima delle sue raccolte (in uscita il 22 ottobre da Einaudi), Dear Life, in un racconto eponimo. Trentacinque anni prima la scrittrice aveva già raccontato la stessa storia, travestendola e spostandola su Rose, la protagonista «inventata» di «Botte da re»: arrivata alla vecchiaia, e alla fine della propria carriera artistica, tante volte annunciata ma sempre rimandata, l’autrice riconosce, o meglio, «confessa», in un racconto dichiaratamente autobiografico, quale risentimento nei confronti della madre l’abbia spinta a affrontare per un’intera vita, artistica e non, i difficili rapporti che ciascuno ha con la famiglia d’origine, l’amore, il sesso, la maternità. E a raccontarli, trasfigurando situazioni e personaggi, naturalmente, ma andando dritta alla coscienza, o all’inconscio, del lettore.
Sono questo assillo e questa inquietudine a tradursi in prosa, in racconto, in personaggi con i quali è facile identificarsi: non è necessario raccontare nel dettaglio e in modo «cronologicamente corretto» una storia per far sì che chi la legge possa rendersi conto che sta leggendo di sé. La scrittura di Alice Munro lavora come la memoria, portando alla superficie ricordi, sensazioni, esperienze, incontri, senza apparente sforzo. In realtà, lo sforzo che l’autrice fa per «rispettare» questo talento inconscio è gigantesco, e richiede proprio quella severità verso se stessa che ha attinto alla prime esperienze di vita in quella piccola comunità presbiteriana, in quella piccolissima cittadina dell’Ontario che è solo un puntino sulla mappa del Canada occidentale.