A Parigi, il Cinéma du Réel previsto dal 13 al 22 marzo si è chiuso subito dopo la serata inaugurale svoltasi il 12 in una sala piena del Beaubourg, alla presenza di una folta delegazione di precari del cinema e dei festival in lotta per migliorare le proprie condizioni lavorative, mentre Macron alla televisione annunciava la chiusura delle scuole e delle università. Da venerdì 13 anche in Francia sono stati vietati gli assembramenti e dunque il festival del documentario si è dovuto riorganizzare per far fronte al «reale» dell’epidemia senza rinunciare alla possibilità di mostrare almeno parte della programmazione al pubblico. Da oggi, infatti, sulla piattaforma Festival Scope è possibile connettersi da tutto il mondo e, previa registrazione, vedere i film della sezione competitiva francese in versione sottotitolata in inglese. Altri festival, per esempio Visions du Réel di Nyon, stanno valutando soluzioni analoghe. Ma a Parigi non rinunciano alla speranza di poter tornare in sala: questi stessi titoli e tutti quelli della competizione internazionale potrebbero essere proiettati al Centre Pompidou dal 3 al 29 giugno se la situazione sanitaria lo permetterà.

COSTRUIRE un dispositivo sufficientemente aperto alla possibilità che qualcosa d’imprevisto si imponga alla nostra attenzione e ci ponga delle domande è in fondo quel che caratterizza il cosiddetto «cinema del reale». Basti pensare a Pedro Costa, a cui quest’anno la manifestazione aveva previsto di dedicare una retrospettiva in occasione dei vent’anni di No Quarto da Vanda / Nella stanza di Vanda. Il suo cinema si è configurato nel tempo come un percorso di ricerca estremamente esigente di forme capaci di cogliere la vita laddove è più precaria, vulnerabile, offesa dalla violenza sociale, scarnificata dal male eppure tenace e resistente come le «erbe folli» tra due pietre. Forme tutte tese a non rendersi a propria volta complici di aggressione, di appropriazione, di furto. Perché ci sono immagini che rubano l’anima e altre che la sfiorano, che ne sanno cogliere e accogliere la fragilità. Come quelle girate da Costa sin dal 2000 con altre persone conosciute in quei luoghi della periferia di Lisbona. Per il regista, «è necessario rischiare a ogni inquadratura, rischiare la propria stessa vita in ogni immagine, in ogni momento, in ogni gesto di un attore. Altrimenti il cinema non serve a niente». 

Il centro e punto di fuga di No Quarto è Vanda Duarte che si fa di crack con la sorella e racimola qualche spicciolo vendendo frutta e verdura. Mentre le ruspe scavano, Vanda e gli altri abitanti del quartiere sono attori del lavorio costante della sopravvivenza e della morte: raggranellare i soldi per la dose, procurarsela, prepararla, mettere a posto casa dopo i raid delle brigate antidroga, lavarsi senza avere un bagno, recuperare un telo per creare una veranda riparata dal sole, rendere utilizzabile un mobile recuperato, una gabbietta per tenere con sé un passero.

ASSURTO quasi a paradigma, l’approccio etico di Costa, si riverbera in altri film selezionati dal festival diretto da Catherine Bizern. La stessa umanissima fatica di non soccombere alle tenebre è all’opera in Celle qui manque di Rares Ienasoaie uno dei film del concorso francese che ruota attorno al quotidiano di una tossicomane; si tratta però della sorella del regista, Ioana, morfinomane che vive sola nel suo camion. Il fratello non la vede da molti anni: «un giorno mi sono sentito solo e ho ripensato a mia sorella maggiore. Ho pensato a com’è strano dover dimenticare qualcuno per poter andare avanti». È arrivato il momento di ritrovarsi ma il film non mostra l’incontro come evento né la difficoltà di rientrare in contatto, scegliendo invece di calare la macchina da presa nella vita della donna, tra i rifiuti del supermercato di cui si ciba, nei rave in cui balla e dimentica se stessa. Notte dopo notte, però, fratello e sorella parlano con una pila sulla fronte e come in un un’esplorazione speleologica ogni giorno scavano più a fondo nel loro rapporto e in quello con i genitori, nel grumo di irrisolto solidificatosi con la sua partenza, nella speranza di scioglierlo.

La parola, il sonoro e l’ascolto sono al centro di diverse opere presentate al Réel 2020, perché lo specifico del cinema non è solo il visivo. Nella selezione internazionale, The Two Sights (An Da Shealladh) del canadese Joshua Bonnetta ci porta nel paesaggio spettacolare delle isole Ebridi filmato per lo più in pellicola e si pone in ascolto del vento, dei pascoli, delle acque intrecciando questa pista sonora con testimonianze che in gaelico o in inglese narrano la presenza nella zona di veggenti dotati di una «seconda vista», ovvero la capacità di udire spiriti del passato e suoni premonitori oltre ogni confine tra vita e morte, cielo e terra, umano e non umano.

LA FATICA di farsi ascoltare dalle istituzioni è invece quella che devono affrontare gli abitanti di una bidonville di Caracas in Chronique de la terre volée di Marie Dault, selezione francese. In virtù di un decreto di Chavez ancora in vigore sotto Maduro, i quasi mille cittadini di Brisas de la Santa Cruz possono ottenere la proprietà della terra in cui hanno eretto le proprie abitazioni sottraendola all’impresa privata che l’ha acquistata, ma a patto di riuscire a comporre un dossier che documenti la storia del quartiere e di ciascuna casa, la «Cartas del barrio». Mentre il Venezuela intero sprofonda in una crisi economica epocale, la donna che il quartiere ha delegato a compiere questa incredibile ricognizione va di casa in casa e raccoglie i ricordi, le confidenze e le lamentele di un popolo che ha creduto alla rivoluzione bolivariana, si è impegnato a sostegno di Chavez e pratica quotidianamente l’autogestione democratica ma finisce per scontrarsi con l’ottusità della burocrazia e teme che la promessa di emancipazione si riveli un’illusione.