Destini intrecciati che improvvisamente divergono. L’amore e l’affetto più intenso che si trasformano in odio e rancore, travolti dalla violenza, da una sorta di guerra civile strisciante che non risparmia niente e nessuno.
Con Patria (Guanda, pp. 632, euro 19), recente evento letterario spagnolo, Fernando Aramburu traccia attraverso l’itinerario di Txato e Joxian, amici un tempo inseparabili di una immaginaria cittadina basca che assomiglia ad Hernani, bastione del nazionalismo basco della Guipúzcoa, delle loro mogli Bittori e Miren e dei loro numerosi figli, la cronaca del dramma vissuto da un intero popolo. Un romanzo, scandito da capitoli brevi e intensi in cui lo sguardo individuale si mescola agli eventi collettivi come in un diario intimo scritto a più mani, che muove dalla fine della lotta armata annunciata dall’Eta nel 2011 per descrivere ciò che resta dopo un conflitto: le tante domande senza risposta, la ricerca della verità, il bisogno del perdono che vale per tutte le parti in causa. Una storia dolorosa, commovente, a tratti spiazzante che Aramburu, scrittore di San Sebastian che da anni ha lasciato Euskadi alla volta della Germania ha concepito come un atto d’amore per la sua terra ferita e come un contributo alla memoria collettiva dei baschi.
Fernando Aramburu presenterà il suo libro al Festivaletteratura di Mantova oggi alle 14.30 alla chiesa di Santa Paola e al Circolo dei Lettori di Torino, lunedì, 11 settembre.

Più che una contrapposizione tra baschi e spagnoli, il conflitto e la violenza descritti in «Patria» rappresentano una frattura all’interno di Euskadi che divide perfino le famiglie. È questa la prima cosa che voleva comunicare ai lettori?
Volevo riflettere sul modo in cui la storia collettiva può insinuarsi e colpire la vita privata, intima degli esseri umani. In quanto romanzo, il libro resta un’invenzione letteraria che però effettivamente non sarebbe stata neanche immaginabile senza la sanguinosa storia che abbiamo vissuto e che ha diviso fin dentro le loro case e le loro famiglie, la gente del Paese basco. Non l’ho scritto per giudicare, ma per dare voce a queste ferite.

Due famiglie, tra loro un tempo molto legate, si misurano con la violenza che le allontanerà definitivamente. E due donne, Bittori e Miren, rispettivamente moglie di un imprenditore ucciso dall’Eta e madre di un membro del gruppo armato, tirano le fila di una dolorosa ricerca della verità e del perdono. Più che la violenza fisica sono le sue conseguenze in termini di paura e rancore a dominare la scena. Un’istantanea di quello che è stato il Paese basco?
Senza dubbio, ma anche l’insieme dei sentimenti che da tutto ciò possono scaturire. Dopo le tragedie che li hanno colpiti, tra i personaggi del libro c’è chi chiude definitivamente le porte alla felicità, chi esalta il proprio senso di colpa, chi cerca di vivere in una sorta di corsa costante, chi fugge e rinuncia ai propri sogni, chi nega la realtà del crimine e del terrore che ha di fronte. Però se dovessi indicare il tema che è davvero al centro della storia, più che la paura direi che è il perdono. Qualcosa di intimo e personale che i tanti discorsi politici che sono stati fatti in questi ultimi anni nel mio paese hanno solo scalfito superficialmente.

Ha deciso di scrivere questo libro solo da quando vive in Germania e dopo che l’Eta ha proclamato la fine della lotta armata. Pensa che se vivesse ancora a San Sebastian non le sarebbe stato possibile?
Assolutamente no. Patria non avrebbe mai visto la luce se l’Eta non avesse cessato le proprie azioni. È dopo questo annuncio che ho capito che la storia cui pensavo da tempo poteva infine prendere forma. Qualcosa di terribile si è finalmente fermato e ha smesso di collocare i miei personaggi nella condizione di evocare costantemente quella violenza, anche se non c’è ancora la piena garanzia che non ci saranno più altri atti terroristici. Resta il fatto che è emersa per la prima volta, seppur tra mille difficoltà, la possibilità di cominciare a curare le ferite che questo conflitto ha provocato. Ed è quello che mi ha spinto a scrivere.

Lei ha spiegato che con «Patria» voleva dare voce alle vittime dell’Eta. Ritiene che fino a oggi ciò non sia avvenuto? E come immagina si possa costruire ora una memoria comune per tutti i baschi?
Certamente in tutti questi anni le vittime hanno saputo creare i loro canali di espressione, i loro famigliari si sono costituiti in associazioni. In molti hanno prestato attenzione alla loro sorte e hanno dimostrato solidarietà e affetto nei loro confronti. Il compito rimasto in sospeso, la vera sfida del presente, è però quella di raccontare alle generazioni che verranno quel che è accaduto. E su questo terreno, lo scontro in atto riguarda soprattutto la versione della realtà che si intende trasmettere. Ciò che affermo con il mio romanzo è che ci sono stati carnefici e vittime, e intorno a loro c’è stata paura e indifferenza e anche un’estesa complicità con i violenti nella società basca. È del resto altrettanto innegabile che ci sono stati anche dei crimini di Stato. Ma non voglio ergermi a giudice, ritengo sia più utile partecipare al racconto generale e lo faccio con la letteratura.

Gorka, il fratello minore dell’etarra Joxe Mari che sconta una lunga pena, descrive la sua terra come «il paese dei muti» dove si è tutti un po’ vigliacchi e silenti di fronte alla violenza. Il radicamento e l’estensione della cosiddetta sinistra abertzale, da cui è nata l’Eta, non evocano il tema del consenso in termini più ampi di quelli della sola paura?
La paura è un fattore tra gli altri che hanno agito all’interno della nostra società. Solo che si tratta di un sentimento che ha la peculiarità di generare comportamenti ispirati alla pura sopravvivenza, quindi può rivelarsi molto utile agli oppressori quando si tratta di controllare la popolazione. Un altro fattore che ha svolto una funzione importante tra i baschi è la speranza che, se diffusa in modo propagandistico e per fare proseliti, può aiutare, come in effetti è accaduto, a conquistare la mente delle persone attraverso l’evocazione di una missione collettiva e utopica da compiere.

In questo senso, cosa pensa resterà del nazionalismo basco nell’era del dopo-Eta? Inoltre, il 1 ottobre in Catalogna si voterà per la separazione da Madrid: il tema dell’indipendentismo resta comunque centrale in Spagna…
L’indipendentismo basco ha perso gran parte della sua forza negli ultimi anni. Il livello di vita del paese è elevato, la gente ha fiducia nelle istituzioni locali ma non ignora i vantaggi di appartenere a una realtà statuale come quella spagnola che è ben integrata nell’Unione europea. Tutti gli attori pubblici sembrano ormai convinti che i problemi sociali possano essere risolti nelle sedi istituzionali e non con pistole e bombe. Detto questo, è chiaro come sotto questa superficie pacifica continuino però a covare non pochi residui del passato e il linguaggio dell’odio a volte riappare. Quanto ai catalani, hanno già fatto un tentativo simile a quello che si terrà tra meno di un mese, ma è fallito. E penso che anche questa volta non andrà diversamente. La Spagna è stata così fin dal Medioevo, la sua è una storia fatta di regni, cantoni, regioni. Ciascuno con la sua lingua, tradizioni, folklore. La fiamma del separatismo è sempre attiva, ma è regolabile. Come aumenta di intensità improvvisamente, allo stesso modo poi diminuisce.

Alla fine del libro, durante un incontro organizzato da un collettivo di vittime del terrorismo, uno scrittore, quasi un suo alter-ego, spiega di essere convinto che sia in atto «anche la sconfitta letteraria dell’Eta». Quali le forme di questa sconfitta e in che misura «Patria» ne è una tappa?
Ciò che definisco come la sconfitta letteraria dell’Eta passa per tutte quelle opere che riescono a delegittimare il messaggio di altri scritti concepiti per far credere che i terroristi fossero degli eroi, che l’Eta non era poi così cattiva o criminale come viene detto e che, in fondo, rappresentava davvero i baschi e combatteva solo per realizzare i loro desideri. Una strategia a cui ci si deve opporre e a cui ho contribuito con questo romanzo.