Dal 28 aprile è nelle sale la copia restaurata dello stupendo film Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais. L’immagine iniziale di due corpi avvinghiati evoca, col disastro di Hiroshima, le due vicende d’amore e morte intrecciate nel film – quella che un’attrice francese, in Giappone per un film, vive con un uomo del posto, e quella della perdita, che la stessa attrice ricorda, del suo innamorato tedesco nel corso della guerra. La sovrapposizione di tempi e di personaggi è un tratto peculiare del linguaggio di Marguerite Donnadieu, in arte Duras, cui si deve la sceneggiatura del film, e che il 4 aprile avrebbe compiuto cento anni.

Per ricordarla, in Francia si sono pubblicati volumi vari, tra cui il terzo tomo delle sue opere nella Pléiade e una nuova edizione della monumentale biografia di J. Vallier (C’était Marguerite Duras, Livre de Poche, 2014); in Italia, oltre a qualche nuova traduzione (Moderato cantabile, tr. R. Postorino, ed. Nonostante; le due sceneggiature Il camion e Agatha raccolte nel volume La ragazza del cinema, tr. A. Molica Franco, pref. S. Petrignani, Del Vecchio editore; ma molte opere restano esaurite in edizione italiana), si è avuto un notevolissimo romanzo sulla sua vita, firmato da Sandra Petrignani (Marguerite, Neri Pozza). Il circolo vizioso vita-letteratura, diciamolo subito, si deve a Duras stessa, ed è il suo capolavoro.

Atlanti solitari

Le sue opere – romanzi noti come Una diga sul pacifico (1950), il tardo bestseller planetario l’Amante (1984), e poi moltissimi altri testi, film e pièces teatrali – esercitano sul lettore / spettatore un effetto di serialità poiché ripetono, pur nella variazione, la storia familiare dell’autrice. Sullo sfondo di una natura che produce abbondanza di vita e con la stessa abbondanza uccide, si disegnano le solitudini dei membri della famiglia, ciascuno dei quali è trascinato da un suo impulso di dissipazione: la madre, dominata dall’amore per il maggiore dei suoi figli e dallo sforzo ossessivo di addomesticare la natura e coltivare la terra; il fratello maggiore, occupato a tradire tutti per soddisfare la propria avidità di vita; lei, la ragazza non abbastanza amata dalla madre, che scopre l’oltranza del desiderio col primo amante. La variazione principale di questo quadro fisso, ossessivamente ripetuto di opera in opera, è geografica: va cioè dalla geografia di un passato originario – la regione francese del Lot-en-Garonne e del villaggio di Duras, luogo d’origine del padre Henri Donnadieu da cui la scrittrice trasse il nome d’arte – alla geografia reale del vissuto – l’Indocina francese in cui Marguerite crebbe.

Questa ripetizione nella variazione è, dunque, iniziale allontanamento del vissuto durassiano nel tempo mitico delle radici francesi e paterne, e poi, di opera in opera, progressivo ritorno verso la biografia reale dell’Indocina, segnato in modo definitivo e totale dal più noto dei suoi romanzi, l’Amante. Lo schema di Hiroshima mon amour, quello di un vissuto che si ripete sovrapponendo due luoghi e due situazioni – una passata e una presente- ha la sua chiave di comprensione nell’opera durassiana, dove passato e presente, storia collettiva e storia individuale, macrocosmo naturale e microcosmo individuale si strutturano non nella progressione lineare ma nella concentricità della ripetizione: al centro di tutto c’è uno stesso movimento vitale, uno stesso desiderio di esistere che si ripete e fallisce, costantemente, fino a chiudersi in se stesso e in una radicale solitudine.

Questa assolutizzazione del desiderio vitale come corto circuito di vita e morte, questa solitudine come attesa assoluta dell’altro, che al contempo isola e mette in comunicazione personaggi, esperienze ed epoche diverse è la via attraverso la quale Duras accede al nouveau roman (svolta segnata nel 1958 da Moderato cantabile): nel 1979 un solo titolo, Aurélia Steiner, intitola tre testi collegati e percorsi da tre vicende parallele, in cui una medesima perdita, variata nel tempo e nello spazio, si ripete sotto lo stesso nome: Aurélia Steiner è una ragazza che attende l’amante perduto da cui epoche e spazi ignoti la separano, è una donna il cui corpo giace riverso nel cortile del lager, uccisa col suo amante per aver cercato di salvare la loro neonata, che giace ancora viva accanto a lei, ed è una bambina ebrea che aspetta con sua madre di essere deportata dai tedeschi.

Sin dall’inizio, nelle parole che Aurélia indirizza all’amante perduto, le tre storie sono misteriosamente coincidenti, in una dimensione sospesa tra la reminiscenza e il rispecchiamento («dicono che è stato nei crematori – sapete, dalle parti di Cracovia – che il vostro corpo è stato separato dal mio… come se questo fosse possibile… parlano a vanvera… non sanno niente…»). Anche le parole, in Duras, sono conseguenza della solitudine irreversibile provocata dal desiderio. Invariabilmente ed originariamente, nel mondo durassiano, la voce umana è urlo che riempie il vuoto del desiderio: sia in Una diga sul pacifico che nell’Amante la madre, assopita, si riscuote ed urla quando il desiderio rinasce dalla momentanea stasi come angoscia.

La voce e la parola nascono nel vuoto prodotto dal desiderio, abitano il suo territorio desertificato, occupano le enormi distanze che separano il personaggio dal mondo o da un altro personaggio. In sostanza, come la dinamica vitale del desiderio, della ripetizione e del fallimento si dà ogni volta col valore iniziale di una scena «primaria», così la parola, ogni volta che è proferita, emerge dalla sua lotta primordiale col silenzio: da qui nasce la fisionomia assoluta ed essenziale del linguaggio durassiano, la sua musica particolare e spezzata, assediata dal silenzio come lo è nel vissuto la parola pronunciata. Questa genesi del linguaggio che è nascita della voce in lotta col silenzio originario vale anche per la parola letteraria e la scrittura (M. Duras, Scrivere (1993), tr. L. Prato Caruso, Feltrinelli, 1994: «Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne»).

Fra parola e silenzio

La riduzione del tempo storico a dialettica esistenziale tra desiderio vitale e morte svolge la stessa funzione di retrocessione della lingua alla sua originaria lotta col silenzio solo in un altro grande scrittore eccentrico e «coloniale» del Novecento francese: Albert Camus.

La dimensione originaria dell’esistenza come corpo a corpo con una natura – mediterranea in Camus, asiatica in Duras – che vivifica e distrugge comporta, in entrambi gli scrittori, la retrocessione della parola alla sua origine: ai molti mutismi dei personaggi che popolano l’autobiografia algerina di Camus (il mutismo timido e illetterato della madre, il mutismo balbuziente dello zio, le poche parole autoritarie della nonna) si affiancano idealmente i mutismi, le solitarie urla, o la ripetizione di poche frasi ossessive dei personaggi durassiani. Duras e Camus retrocedono dal materialismo storico all’esistenza, dall’«io» idealistico all’individuo concreto: partono cioè dalla solitudine dell’individuo in carne e ossa, riformulando la mediazione tra il singolo e la storia.

Un certo pensiero antropologico – ad esempio quello di Ernesto De Martino, cui non a caso l’idealista Croce negò ogni statuto filosofico – ha individuato questa mediazione in un momento fondativo ed originario di unità tra l’individuo e il tutto naturale: il piano della «metastoria mitico-rituale», motivo filosofico centrale degli scritti di Camus che descrivono la relazione tra l’uomo e il paesaggio algerino prodotti tra il 1936 e il 1953, poi riuniti in Nozze e in Estate. La percezione della natura africana – il deserto, il mare – riconduce l’uomo alla coscienza di essere vivo, in relazione con ciò che rende la sua vita un fatto presente. La vita è «solarità tragica», «pienezza angosciante» in cui tutta la storia si azzera e rinasce concretamente, individualmente, misteriosamente nel rapporto tra natura e singolarità concreta. È questo il senso del titolo che Camus diede al suo ultimo romanzo, pubblicato postumo nel 1994: Il primo uomo è l’individuo còlto nel concreto assoluto della sua esistenza, così chiusa nel presente da rendere il figlio che visita la tomba del padre morto in guerra a vent’anni per sempre «più vecchio» del defunto.

Lo stesso vale per le varie Aurélia – madre, figlia, amante – che formano le tre storie di Aurélia Steiner, o per i due corpi metastoricamente accostati nell’amore e nella morte, nei film Hiroshima mon amour e in India Song (1975): nella ripetizione dell’eterno presente vitale non c’è spazio per la progressione della storia.