Cento film di solitudine – il titolo marqueziano, sul «NYTimes» di mercoledì, era quello di una conversazione tra i critici, Manohla Dargis e A.O Scott, sui due grandi festival d’autunno, Toronto e New York. A questo punto della stagione, dice Dargis, il suo taccuino di appunti sarebbe già pieno di note sul programma di Telluride e quello di Toronto – invece «abbiamo visto in streaming, messo in pausa e stoppato a metà un sacco di film a casa nostra». Non importa quanto sono interessanti i titoli proposti dai festival virtuali, niente è paragonabile all’esperienza fisica in un festival, conclude Dargis.

Meno appassionato, Scott ribatte che non gli passerebbe nemmeno per la testa di prendere un aereo. Quindi per lui i link sono benvenuti. Come loro, altri critici ed esponenti dell’industry americana si sono dati da fare per seguire i festival in remoto – cercando di replicare in forum online gli scambi d’idee a caldo che normalmente si fanno fuori dal cinema. Il risultato di questi sforzi è piuttosto deprimente.

Forse anche perché la prima cosa che scompare con un festival online è «la bolla», il tempo sospeso che si associa a un festival (non solo di cinema), il senso di comunità, e la percezione del programma come un unicum, con una sua logica interna. A casa, compresso nel cavo a fibre ottiche e poi rimbalzato dal wi-fi, quel programma – studiato in mesi di fatica – finisce invece per intrecciarsi inevitabilmente con l’ultimo titolo che arriva su Netflix, il link del film indipendente in uscita virtuale proposto da un ufficio stampa, o – peggio ancora – le ultime news da Casa bianca e dintorni. Una delle stagioni più belle per essere a New York, tradizionalmente l’autunno è dove tutto in città ri-comincia – cinema, teatro, musica, mostre d’arte…

Se dallo shut down primaverile erano emerse soluzioni temporanee nell’attesa che tutto tornasse «alla normalità», il mood autunnale sembra molto meno animato di speranza. Anzi, c’è chi ha già buttato la spugna. È di giovedì l’annuncio che la Metropolitan Opera ha cancellato l’intera stagione 2020-21. Chiuso da marzo (con una perdita valutata intorno ai 150 milioni di dollari e circa mille impiegati lasciati a casa, senza stipendio da aprile), il teatro newyorkese non riaprirà le sue porte che nel settembre dell’anno prossimo (con Fire shut Up In My Bones, di Terence Blanchard). Nel frattempo, ha annunciato il direttore Peter Gelb, dietro alle quinte, il teatro cercherà dai sindacati concessioni in base a cui configurare un regime post pandemia. Sembra pensabile che Broadway – per ora chiusa fino a primavera – potrebbe fare la stessa scelta.

E il ragionamento – saltiamo un anno – sembra essere nelle mente di molti. È il caso per esempio del festival texano di SXSW (l’edizione del 2021 sarà solo virtuale, dopo che Sundance ha dimezzato le sue date di gennaio) o, tra il singhiozzo nel listini di distribuzione degli studios, della Disney che giovedì ha posticipato le uscite di West Side Story di Spielberg e di The Eternals alle stesse date in novembre e dicembre del 2020 – solo 12 mesi più avanti. È un po’ meglio per i musei della città che stanno riaprendo al 25% della capienza e puntando più che altro sulle collezioni permanenti o su mostre pre-Covid. L’immagine del cuore della cultura americana che entra in semi-letargo per un anno (senza contare i tagli che saranno durissimi) è terrorizzante.

E a questo proposito va ricordato gli Stati Uniti trovarono una grandissima fioritura artistica proprio in uno un momenti più bui della loro storia, la Grande depressione. Certo, perché qualcosa di anche lontanamente simile possa verificarsi, ci vuole il governo adatto. E poi un modo di fruire dell’arte, di parteciparne, che non può essere online.

giuliadagnolovallan@gmail.com