Luc (Logan Antuofermo), aspetta un bus alla fermata di una stazione di periferia. Dall’altro lato del marciapiede, c’è una ragazza (Oulaya Amamra). Un breve gioco di sguardi tra i due lo convince ad attraversare la strada, mentre lei quasi incredula lo controlla con la coda dell’occhio. È un incontro. Si rivedranno. Si ameranno, almeno per qualche ora. E poi si separeranno. La stessa cosa, più o meno, avverrà altre due volte. Luc si imbatterà prima in Généviève (Louise Chevilotte) e infine in Betsy (Souheia Yacoub). Ogni volta l’amore sarà diverso in intensità perché diversa è la natura della persona incontrata. Garrel ne fa quasi una questione di materia – come se un partner fosse una sorta di fibra che resiste in maniera più o meno forte al tentativo dell’altro di plasmarla secondo il proprio desiderio. Luc non sarà soddisfatto fino a che non riuscirà a trovare «una donna che mi tenga testa». Ma è proprio questa che gli renderà la vita più amara.
Le sel des larmes – oggi in prima italiana nella notte di Fuori Orario, ore 1.15 – ha il sapore di un racconto morale rohmeriano. Luc va a Parigi per superare l’esame d’iscrizione alla prestigiosa scuola nazionale d’alto artigianato.

QUANDO GLI VIENE notificata l’ammissione, il padre (André Wilms, una magnifica interpretazione la sua), un semplice artigiano, piange di gioia. Uno dei fili più belli che il film tesse, forse quello principale, è il rapporto tra l’anziano di poche parole e di infinita bonarietà, e il figlio che vuole diventare ebanista, avverando così un sogno che il padre portava nel cuore ma al tempo stesso rappresenta un salto sociale e geografico che catapulta Luc definitivamente al di là dell’etica solida e semplice del vecchio falegname. Nessuno meglio di Philippe Garrel avrebbe potuto descrivere la relazione fittizia tra quel genitore e quel figlio, nella quale ovviamente c’è un precipitato dell’intensa storia d’amore, d’amicizia e di lavoro con il proprio padre Maurice Garrel, e con il proprio figlio Louis Garrel. Se il cinema fosse un arte – scrive Serge Daney all’inizio di un articolo su Elle a passé tant d’heures sous les Sunlights – allora gli artisti cineasti starebbero sempre ad esercitarsi, a far le scale, come i musicisti, i pittori e gli sportivi, non tollererebbero di passare un solo giorno senza praticare i gesti del loro mestiere.

MA QUALI sono questi gesti? Quelli di Garrel sono unici, come la tessitura dei suoi bianchi e neri, come la meteorologia ineffabile dei sentimenti che con pochi tratti Garrel è capace di modulare in un infinità di toni diversi. Sarebbe troppo facile vedere in questo film, e nel personaggio del giovane Luc, l’autobiografia di un ragazzo passato dall’artigianato all’arte – o perso per strada nel tentativo. Garrel sembra immobile, chiuso nel suo universo, sospeso nella sua iconografia: i caffè alla Degas, gli appartamenti senza mobilio, con un materasso per terra e qualche libro, i pavè delle strade di Parigi, con i nomi delle vie impressi con i caratteri bodoniani in fondo blu e cornice verde. Ma è solo apparenza.

NEL BEL MEZZO del maestoso bianco e nero, spuntano degli elementi assai colorati che ad un primo sguardo appaiono rozzi o ingenui – come lo scontro con i due razzisti fuori dalla discoteca. Ma che in realtà sono l’espressione di una vera sensibilità per i cambiamenti sociali e culturali. Garrel si è sempre fidato, più che della riflessione, di quel materialismo immediato di cui, secondo Walter Benjamin, la poesia di Baudelaire è l’espressione. Il poeta demiurgo che canta l’âme du vin non guarda alle forme ideali ma fa insorgere nella propria lirica il fenomeno della tassa sul vino. Il sale delle lacrime ha la stessa spontaneità. Le lacrime sono quelle degli studenti che si sono rifugiati a Montreuil perché a Parigi non possono più permettersi di vivere. Se il film accoglie questi elementi non è per spirito d’analisi ma per motivi pratici.
Nessuno come Garrel sa come gestire i budget di spesa per essere ancora libero di girare. Ora, filmare a Montreuil è meno caro, più semplice. L’insieme di queste scelte economiche, che nella sua somma dà il film, diventa anche il modo con cui il film intrattiene un legame, spontaneo e non mediato ma non per questo meno vero, con la struttura effettiva del mondo di oggi.