Il silenzio ha le stesse tonalità di grigio che avvolge le nuove opere di Hans Op de Beeck (Turnhout, Belgio 1969, vive e lavora a Bruxelles) esposte in occasione della mostra The Boatman and other stories alla galleria Continua di San Gimignano (fino al 6 gennaio 2022). Tolto il «rumore» è più facile per l’artista multidisciplinare dare al racconto un carattere universale, aperto. La negoziazione passa attraverso l’apparente contrasto tra l’esuberanza dei dettagli – disegnati, dipinti, incisi, modellati – e l’uniformità monocromatica dei materiali (tranne qualche rara eccezione come il rosa dei fiori di ciliegio) che veicola il potenziale evocativo del lavoro.
Nell’attimo in cui il movimento sembra congelato, come nel gioco delle «Belle statuine», s’innesca un’altra azione: la forza dell’uomo sulla barca che sfida l’acqua, la staticità di un cane che sonnecchia, l’attesa degli adolescenti sul pendio roccioso, gli scheletri che fumano o il sonno quieto di una bambina con le trecce.

Nelle opere di «The Boatman and other stories» il confronto è con temi esistenziali come la caducità della vita, le sue fragilità, la perdita, l’eternità. In molti lavori, tra cui le nature morte, c’è la citazione del «memento mori» e della «vanitas» come nell’iconografia tradizionale. La ricerca quasi ossessiva della forma, non tanto come imitazione del reale ma come propaggine della natura umana, è un mezzo per stimolare l’inconscio?
Credo che le cose essenziali della vita facciano parte della banalità del quotidiano. Non si tratta delle storie spettacolari o dei grandi eventi storici, proprio delle piccole cose. Sarà un cliché ma è questo che dà senso al periodo estremamente breve che, in quanto esseri umani, trascorriamo sulla terra e che, alla luce dell’eternità, mostra – come afferma Milan Kundera – quanto la vita sia così leggera e in un certo senso riducibile. Quando mi confronto con persone che credono di essere il centro dell’universo, dico loro che basta guardare dall’alto di un aeroplano per vedere quanto siamo piccoli. Accettare la brevità della vita permette di apprezzarne qualsiasi momento. Non c’è persona che abbia superato una malattia, come per esempio il cancro, che non ritenga che ogni singolo giorno è un dono. Confrontarsi con la realtà della morte, accettarla e partire da qui per apprezzare la quotidianità è proprio quello che faccio nel mio lavoro attraverso il memento mori. Un modo elegante e pacato per affrontare il tema della fine – invece di averne paura o rifuggirla. Personalmente non la temo perché è l’unica certezza che abbiamo.

Foto di Manuela De Leonardis

È più facile accettarla pensando all’arte/artista nella sua valenza di immortalità?
No, non per me. L’unica ragione per cui prendo in considerazione il fatto che un’opera possa acquistare valore, quindi immortalità, è perché posso lasciare qualcosa ai miei figli quando non ci sarò più. Per il resto credo nel «qui e ora» e in questo mi sento vicino alla performance teatrale.

Lei ha affidato la rappresentazione di questo mondo sospeso all’aberrazione cromatica. Il presente appare bloccato, svuotato del soffio vitale – come nei calchi di Pompei o nella scultura funebre – eppure è pronto a rimettersi in moto sotto lo sguardo incantato/sorpreso dello spettatore. Nel passaggio alla grande dimensione qual è stato il ruolo di un’opera come «Table» (2006), dove il bianco è «illuminato» dalle tracce cromatiche di residui di cibo, caffè e posaceneri pieni di cicche?
L’imitazione della realtà in sé non mi interessa, altrimenti sarebbe una replica di Madame Tussauds. Così come non sono attratto dal dipinto iperrealistico che considero come un bel manufatto che però, in mancanza di un valore aggiunto, non trovo necessario in quanto basta fotografare ciò che abbiamo intorno. Mi sento più vicino a un pittore come Peter Doig o allo scultore Thomas Houseago che interpretano la realtà. Un’eccezione è lo scultore iperrealista Ron Muech con le sue grandi opere a colori, come la coppia sulla spiaggia sotto l’ombrellone o la signora con le shopping bag, che arriva a descrivere dettagliatamente le unghie, però non usa la dimensione naturale. Quando ho iniziato a realizzare sculture di esseri umani ho impiegato il gesso bianco, ma quel colore non permetteva una buona lettura della forma e delle espressioni. Non solo, il bianco crea distanza: si ha quasi paura di toccare i lavori per non lasciare tracce. Allora ho mescolato del pigmento nero con il gesso ottenendo un composto grigio chiaro che è quello che utilizzo da oltre dieci anni. Quanto all’opera Table, essendo in scala 1 ½: 1, viene percepita dall’osservatore come se fosse un bambino di 6 anni. L’effetto del bianco è molto spettrale, astratto. In questo contesto, come al museo Pino Pascali, dove tutto è bianco – tavolo, tovaglia, pavimento – e la luce tale da non creare ombre ho messo per contrasto degli oggetti legati al consumo fatti con la resina colorata in due componenti, come la torta di fragole e quella ripiena di ciliegie che sembravano così reali da far venir voglia di mangiarli. Volevo che ci fosse l’evocazione di un sentimento, l’essenza di un momento. L’esagerazione della dimensione, aumentata rispetto alla realtà, connotava l’opera di un qualcosa più forte rispetto a una semplice imitazione.
Se si pensa a Pompei è come una versione pietrificata della realtà. C’è anche chi ha fatto notare che le mie sculture sembrano film in 3D. In un certo senso c’è l’idea di movimento, ad esempio The Boatman potrebbe essere la prima inquadratura di un film con l’uomo che spinge il palo per muovere la barca nel fiume, dopo ci potrebbe essere il paesaggio che scompare nell’orizzonte e poi altre storie. Anche per questo ho dato alla mostra il titolo evocativo The Boatman and other stories dove il il grigio fa tacere tutto. In Dancer il grigio monocromatico ha fatto diventare il soggetto un’altra cosa. Quando la ballerina brasiliana è venuta in studio per posare era tutta un tripudio kitsch di piume rosa, oro e argento. Il kitsch è andato via. Inoltre, la ballerina non è colta nel momento performativo, ma durante una pausa quando seduta fuma una sigaretta. Un momento che è in mezzo, tra il prima e il dopo.

L’attenzione al dettaglio nasce dalla pratica del disegno? Da studente si dedicava ai fumetti…
Negli anni ’90, al College i miei insegnanti erano minimalisti, sono anche stato assistente di uno di loro che faceva delle bellissime opere ma ridotte veramente all’essenziale. Mi incoraggiavano alla riduzione, ma i miei schizzi erano sempre molto pieni di dettagli, come nei fumetti. Quella del resto era la mia formazione. Ho provato a ridurre, ma non appartengo alla generazione del «meno è di più». Ho grande rispetto per i minimalisti, in particolare per Donald Judd. Nel suo lavoro c’è ritmo e precisione ed è tagliente. Solo, non fa per me.

Cimentandosi in altre discipline, tra cui la regia, i costumi e la scenografia in «The Convert», l’opera musicata da Wim Henderickx in cartellone nel 2022, come avviene il passaggio dall’idea alla realizzazione?
Cerco di iniziare con cose molto semplici che poi diventano molto complesse. Provo a ridurre e semplificare. In The Boatman volevo presentare un uomo in una barca. Poi mi sono chiesto come dovesse essere quell’uomo, che tipo di pantaloni avrebbe indossato, sarebbe stato solo o con qualcun altro? Ci sarebbe stato un bambino o un cane? Automaticamente è diventato tutto più complicato. Non faccio quasi mai schizzi preparatori, semplicemente comincio. Il soggetto si mette in posa e poi, un po’ alla volta, l’opera si sviluppa. È così per tutte le discipline: è il lavoro stesso che mi porta lontano dal punto di partenza.