L’idea secondo la quale il senso della vita non va cercato in ragioni speculative ma nel suo puro e semplice darsi, nel viverla, nel «cantarla», è centrale nella poetica di Franco Marcoaldi: i suoi versi la esprimono anche attraverso la loro stessa musicalità, il loro incedere, che li fa suonare e «cantare», appunto.

L’IDEA È CHE LE COSE non si possano raggiungere con il pensiero ragionato e con l’intelligenza, o almeno non solo e non sempre: talvolta è necessario disfarsi dell’intelletto, per raggiungere quello che Robert Frost chiamava il «suono del senso». Ecco, potremmo dire che l’elemento più tipico e caratteristico delle opere di Marcoaldi è il tenersi insieme di suono e senso, l’uno intrecciato all’altro: e lo vediamo ora, una volta di più, nel bellissimo «monologo drammatico», Quinta stagione (Einaudi, pp. 62, euro 10).

SI TRATTA DI UN POEMA (e Marcoaldi non è nuovo alla forma del poema, perché negli ultimi anni ne aveva già pubblicati due, Il mondo sia lodato e Il padre, la madre), formalmente diviso in dodici canti ma nel contesto di un continuum discorsivo che conferisce unicità e linearità sia al suono che al senso, lungo tutti i canti. Molti elementi ricorrono, rispetto alle opere precedenti: ad esempio le rime interne o una certa ritmicità in battere e levare, derivante soprattutto dall’accostamento, dentro ciascun canto, fra strofe brevissime e stanze più articolate e distese. Oppure ancora la ripetizione costante di certe parole, a cominciare da quelle del titolo (Quinta stagione), che tornano nel corso di tutto il poema, o l’inclinazione alla drammaturgia, e cioè la presenza di una molteplicità di voci in dialogo alternato fra loro: fra domande, risposte e rimandi. E poi le improvvise scintille di intuizione, spesso sdrammatizzate e stemperate dall’ironia: ma le scintille intuitive e l’ironia sono elementi il cui ricorrere in realtà è inevitabile, perché sono naturali e personali, posturali, prima che poetici. Infine, quell’idea dell’accettazione della vita nel suo darsi di bene e di male, senza pretesa o presunzione di volerle resistere, di cui si diceva.

LA POESIA di Marcoaldi è sempre intrisa di citazioni, ed è questa una sua ulteriore caratteristica. Qui alcune citazioni sono esplicitate nella nota finale del libro, come il De rerum natura di Lucrezio, il Libro d’ore di Rilke, i Quattro quartetti di Eliot. Altre sono nascoste, o appena evocate: e fra queste è forse possibile intravedere almeno le Metamorfosi di Ovidio. La Quinta stagione a cui allude il titolo del poema sembra da intendere come la stagione in cui ci decideremo «a vedere finalmente/le cose come sono e ad accettarle/comunque come un dono», in cui finalmente capiremo che la vita è una «cerimonia di passaggio», uno «spazio petroso che si allarga,/guizzo di un infra-tempo sfigurato/che siamo chiamati ad abitare»: e cos’altro esprimono le Metamorfosi se non questa identica accettazione dell’incessante trascorrere e trasformarsi nel tempo di ogni cosa – anche del bene, anche del male? Ma Quinta stagione esprime, più che mai, rispetto alle opere precedenti di Marcoaldi, il sentimento e la consapevolezza della nostra partecipazione a qualcosa di più grande, che eccede la vita di ognuno.

ANCHE UN FILM, The tree of life di Terence Malick, potrebbe essere incluso fra le citazioni nascoste, se non rappresentasse piuttosto solo una suggestione. Per parlare della grazia e della violenza dei due protagonisti, nel suo film Malick parte dalla creazione del mondo e fa confluire tutto in un punto, che coincide proprio con l’esistenza di quelle due persone: come a dirci che tutti siamo gettati dentro una storia infinita che ci trascende e che, in un dato momento, converge su di noi.

È PROPRIO QUESTA ECCEDENZA a conferire alla vita la sua ineludibile tragicità, in fondo, perché è questa l’incurvatura del nostro passaggio sulla terra. E non sono lontani da immagini simili alcuni versi come questi: «Lo so da me che anch’io mi muovo/titubante in questa esile fessura». O come quelli finali, quasi riassuntivi: «Come piante celesti che non sanno/di essere profughi luminosi/e abbandonati; figli indigenti/di una terra – da sempre, e ancora,/pronta a farsi fecondare».