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Nel sottosuolo di Istanbul quattro prigionieri cercano di dominare l’ansia e la paura scambiandosi storie tratte dalle loro vite per dimenticare che li attendono ancora nuovi interrogatori e nuove torture. Sopra le celle, intanto, qualcosa si muove. Nella caotica metropoli del Bosforo si annuncia un cambiamento, forse una rivoluzione, certo qualcosa per cui sperare.

Il nuovo romanzo di Burhan Sönmez, già avvocato impegnato nella difesa dei diritti civili e docente di letteratura ad Ankara, tra i più significativi protagonisti delle nuova scena letteraria turca, Istanbul Istanbul, appena pubblicato da Nottetempo (pp. 300, euro 17), si può leggere come un atto d’amore per una città-mondo in continua evoluzione, eppure così intimamente legata a mille tradizioni, un laboratorio di identità e di futuro, come documentato anche dalla recente mostra «Istanbul. Passione, gioia, furore» allestita al Maxxi di Roma. Oppure, in questo libro politico nel senso più profondo del termine, quello che ha che fare con i sentimenti e l’anima degli individui, si può cogliere l’eco di quel brusio ribelle, quasi un sottofondo dissonante, che caratterizza da tempo la società turca e che è passato per Gezi Park e le tante proteste di Taksim, cui spesso si è unito lo stesso Sönmez, malgrado il volto sempre più cupo del regime di Erdogan. In ogni caso un libro coraggioso e affascinante che sorprende per lucidità e leggerezza anche di fronte alle prove più ardue e che apre allo sguardo del lettore una Istanbul inedita e tutta da scoprire.

Burhan Sönmez presenterà il suo romanzo insieme a Marco Ansaldo questo pomeriggio alle 18,30 a Palazzo Badini nell’ambito del festival Pordenonelegge.

 In «Istanbul, Istanbul», la città delle celle sotteranee e quella della vita che scorre in superficie appaiono come i due volti di una medesima realtà, divisa tra destini individuali e traiettorie collettive, ma anche in qualche modo sospesa tra l’oblio e la costruzione di un futuro migliore. Solo tenendo insieme questi due aspetti possiamo cogliere davvero la realtà della metropoli e forse dell’intero paese?

La vera chiave per capire qualcosa è quella di tenere presenti entrambi gli aspetti, come ho fatto nel romanzo. La superficie sotterranea e quella che sta sopra, il luminoso e lo scuro: ciascuna di queste parti può essere vista come l’altra dimensione della medesima realtà. Quando la pluralità del reale è sostituita dalla singolarità della mente si rischia di perdere l’essenza delle cose. Ecco perché ho voluto guardare la città da una prospettiva sotterranea. Quello non è infatti solo il luogo in cui si trovano le celle, ma per certi versi è anche il contesto in cui prendono forma, penso agli angoli più riposti di noi stessi, il dolore, la disperazione, la separazione e, in reazione a tutto questo, la speranza, la gioia, l’amore, la capacità di resistenza. Se Istanbul è la protagonista, sullo sfondo si staglia l’immagine dell’intera Turchia che non si arrende.

Dopo il fallito golpe di luglio e la repressione che ne è seguita, il paese sembra essersi avviato ancor di più verso una forma di autoritarismo che colpisce ogni voce critica. Cosa sta succedendo?

Si può dire che due forze non democratiche siano entrate in conflitto sulla pelle del paese. Da una parte i militari legati a Gulen e dell’altro il governo di Erdogan. Dopo il fallimento del colpo di Stato le piazze si sono riempite di sostenitori del presidente che gridavano «Allah Akbar», mentre lui ha colto l’occasione per completare l’opera di controllo su ogni aspetto della vita pubblica. Io non perdo la speranza, ma è evidente come nel mio paese ci sia sempre meno spazio per una vera vita democratica e per una cultura laica.

I prigionieri protagonisti del romanzo si raccontano storie per cercare di non pensare alle torture che subiscono. Quali storie racconta la sofferenza della società turca di oggi, quale idea di futuro?

Probabilmente una storia che parla allo stesso tempo di disperazione e di speranza. Perché oggi le persone in Turchia si sentono disperate, arrabbiate, infelici, ma, per quanto paradossale possa apparire, anche ottimisti. L’idea del futuro in Turchia è un po’ come il famoso esperimento della scatola del gatto di Schrödinger. C’è un gatto chiuso in una scatola. Dopo un certo tempo, per la scienza che si basa sulle probabilità, il gatto può essere sia vivo che morto; e in qualche modo entrambe le cose allo stesso tempo. Il futuro della Turchia mi appare simile alla sorte del gatto. È stato messo dentro una scatola che potrebbe segnarne la sua morte oppure no. Quando arriva il momento, apriremo la scatola e vedremo cosa è successo.

Conosciamo la Istanbul rassicurante della memoria dell’infanzia di Orhan Pamuk, quella della contaminazione perenne descritta, a partire dalla musica, da Wim Wenders in «Crossing the Bridge» quella delle manifestazioni del 1 maggio che fanno pensare ai nostri anni Settanta. Quale è la «sua» città?

I miei sentimenti verso la città sono cambiati nel corso del tempo. E così funzionano anche i mei ricordi. Istanbul a volte corrisponde al periodo di quando ero studente all’università o, talvolta, al luogo in cui mi nascondevo dalla polizia. Si può trattare di una caffetteria nascosta sotto il ponte di Galata, o di una visita notturna al Palazzo Topkapi. O, ancora, assume la forma del primo libro di poesia che ho comprato al mercato di Sahaflar quando ho messo piede per la prima volta in città a 17 anni. Ma naturalmente ci sono anche tante altre cose che ora dimentico. Forse per questo ho scritto un libroche parla prima di tutto di Istanbul. E sono sicuro che non sarà l’ultimo.

Istanbul è anche una città curda, e lei stesso ha queste origini. Che cosa significa nella Turchia di oggi?

Istanbul ha 15 milioni di abitanti e questo la rende la più grande metropoli turca. Ma il fatto che qui vivano circa 2 milioni di curdi, ne fa allo stesso tempo anche la più grande città curda del mondo. I curdi di qui appartengono prevalentemente alla classe operaia e sono arrivati in città inseguendo il sogno di una vita migliore. Molti parlano in curdo anche in mezzo alla strada, anche se è pericoloso perché si tratta di una lingua proibita e perché, visto il perdurare della guerra nei loro confronti, sono spesso considerati come nemici dello Stato anche dalla gente comune. Ricordo che quando sono venuto a Istanbul per frequentare l’università mio padre mi ha consigliato di nascondere agli altri la mia identità curda.

Il suo romanzo precedente, «Gli innocenti», trae spunto dalla sua esperienza di esiliato e dopo la fine delle proteste di Gezi Park, scoppiate nella primavera del 2013, a cui lei ha preso parte. Cosa resta di quel movimento nella società turca?

Quello di Gezi Park è stato un movimento spontaneo, sostenuto da milioni di persone; per la Turchia è stato come un terremoto politico. E si è fermato per due motivi. Da un lato perché almeno in parte ha vinto, nel senso che è riuscito ad imporre per un certo tempo la volontà popolare grazie ad una mobilitazione che è andata ben oltre piazza Taksim. Dall’altro, a causa della repressione selvaggia, le forze di sicurezza hanno ucciso una decina di persone, ne hanno ferite migliaia e ne hanno arrestate altrettante. Perciò, anche se non ha potuto proseguire come prima, quel movimento mantiene ancora oggi inalterata la sua energia sotterranea, pronta a riemergere quando sarà il momento.