«Quando sono venuto qui, mi è piaciuto prima di tutto l’ambiente selvaggio, al livello delle foreste pluviali dell’Amazzonia, con l’acqua del fiume che scorreva chiara, limpida», racconta uno dei protagonisti del documentario Monte Inferno alla regista Patrizia Santangeli. Come gran parte delle persone che vivono attorno alla discarica di Borgo Montello, a pochi chilometri da Latina, ha un rapporto stretto con la campagna. Discendono tutti dai veneti e friulani arrivati nell’agro pontino per la campagna di bonifica avviata dal Duce e ora, per una sorta di nemesi storica, si trovano a fare i conti con l’inquinamento di quelle terre che i loro avi avevano reso abitabili e coltivabili.
I SIKH DI SABAUDIA
Non è la prima volta che Patrizia Santangeli ferma il suo obiettivo sull’agro a sud della capitale. Qualche anno fa, con Visit India si era addentrata nella comunità sikh di Sabaudia. Ne era venuto fuori un ritratto solare e colorato che faceva a pugni con lo sfruttamento in agricoltura di un popolo silenzioso, pacifico e operoso. Stavolta, ha deciso di raccontare le vite ai margini della discarica di Borgo Montello, la seconda del Lazio per dimensioni e la prima per scandali e misteri, in una sorta di Sacro Gra pontino. Il Monte Inferno è soprattutto evocato, aleggia nei discorsi e negli striscioni di protesta davanti alle abitazioni, nel ruscello che scorre placido e torbido, nella puzza con la quale i cittadini sono condannati a convivere. Per contrasto, spesso è la natura a farla da protagonista: i fiori coltivati in serra, le galline che razzolano libere, i cicalecci e i cinguettii che fanno da colonna sonora al documentario.
MISTERI DEL SOTTOSUOLO
Nessuno sa con precisione cosa sia stato sepolto a Borgo Montello. Ufficialmente rifiuti solidi urbani, ma il sospetto che per anni la collina artificiale sia stata gonfiata pure di scorie industriali è un segreto di Pulcinella. Lo testimoniano alcuni incidenti dei quali sono rimasti vittime operai del posto e soprattutto le dichiarazioni di Carmine Schiavone. Il superpentito del processo Spartacus contro il clan dei Casalesi, ora defunto, aveva detto che Borgo Montello negli anni Ottanta era «provincia di Casale», dai giorni in cui da queste parti si trasferì Paride Salzillo, nipote del boss Antonio Bardellino.
Il racconto del pentito si ferma alla fine del decennio, ma tutto lascia presumere che gli sversamenti siano continuati anche dopo. Più che un indizio, pare costituire una prova quello che accadde la notte tra il 29 e il 30 marzo 1995 a don Cesare Boschin, parroco padovano inviato dalla Curia locale tra gli emigranti veneto-pontini. Il prete aveva aperto i locali della chiesa a un comitato di cittadini che si era costituito da qualche mese per protestare contro le esalazioni della discarica, aveva cominciato a denunciare i traffici sospetti e per questo aveva ricevuto alcune intimidazioni. «Una pressione sul parroco la escludevamo tutti, compreso lui», racconta in Monte Inferno un amico che la sera del 29 marzo era con lui. «Sosteneva che la sua tonaca era una corazza inviolabile: chi avrebbe usato alzare la mano su un sacerdote? Però negli ultimi giorni non era più sicuro di se stesso».
MINACCE
Quella sera, invece, chiese a padre Mariano, un suo collega, di non essere lasciato solo perché aveva paura di morire. Questi gli rispose che non era «ancora tempo». «Pensava che la paura fosse legata al tumore di cui don Cesare soffriva» e non ad altre minacce incombenti. Per questo verso mezzanotte andarono tutti via.
La mattina dopo, la perpetua trovò don Cesare in camera sua con le mani e i piedi legati, pieno di lividi e fratture, la bocca incerottata. Era stato ucciso di botte. Uno dei primi ad accorrere, Claudio Gatto, disse ai giornalisti in una sorta di conferenza stampa improvvisata: «Quando mi sono affacciato nella spoglia cameretta al primo piano della canonica, ho incrociato gli sguardi terrorizzati, smarriti, quasi increduli, degli amici che hanno frequentato l’oratorio. Don Cesare, nel vecchio pigiama a strisce, era lì, ripiegato come uno straccio usato. Sul lettino di ferro da militare un piccolo corpo inerte, con quel nastro osceno a tappargli ermeticamente la bocca. L’infame, così viene chiamato chi denuncia nel gergo della mala, non avrebbe più parlato. Le mani e i piedi legati a mo’ di capretto richiamavano l’agnello sacrificale, lui per tutti, e l’asciugamano insanguinato ai piedi del letto un ammonimento per tutti».
UNA ESECUZIONE
Movente, mandanti ed esecutori materiali non saranno mai trovati. Negli anni sono state fatte le ipotesi più disparate, ma a Borgo Montello nessuno ha mai avuto dubbi: si trattò di un’esecuzione camorristica perché, come dirà Carmine Schiavone, don Cesare «aveva capito qualcosa» sugli affari illeciti legati alla discarica. La tonaca non l’aveva protetto, allo stesso modo in cui non aveva protetto, appena un anno prima a Casal di Principe, don Peppe Diana, reo di aver rifiutato di celebrare il funerale di un uomo ucciso in una faida. In ogni modo, chi uccise colse nel segno: il comitato si sciolse di lì a poco e i traffici poterono proseguire indisturbati.
Oggi la situazione è cambiata. La discarica è chiusa e il comune di Latina è impegnato in un braccio di ferro con la Regione Lazio per impedire che riapra. Le scorie e l’inquinamento rimangono, in attesa di una bonifica che chissà se e quando si farà.
La storia di Borgo Montello è filtrata attraverso le peripezie della famiglia Giorgi, dal fondatore Sergio ai nipoti. La discarica li ha costretti a chiudere l’azienda agricola per convertirla in un vivaio floreale e la crisi economica ha fatto il resto, spingendoli a mettere in vendita l’attività per evitare il fallimento. Ma nessuno vuole rilevare un’azienda che si trova «a ridosso di una discarica». I fiori, in Monte Inferno, appaiono bellissimi.