Racconta Pippo Delbono che per lui questo «piccolo» film (nel senso di durata, una ventina di minuti) rappresenta un passaggio cruciale nel suo lavoro di cineasta, il confronto cioè con la dimensione narrativa. Non che i suoi film precedenti la escludessero, anzi, anche nelle immagini più intime in cui quella prima persona che fa parte della sua opera e poetica appariva quasi sovraesposta, l’elemento di messinscena era presente, e ne garantiva la forza e il sentimento di verità. L’io dell’autore, i suoi sentimenti, la rabbia, l’indignazione, il dolore, la tenerezza diventavano il punto di vista da cui restituire la realtà.

 

 

Qui però ci sono due attori che interpretano due personaggi, lui, Delbono, non appare, rimane dietro alla macchina da presa (nel suo film dichiaratamente di finzione, Grido era protagonista) e li segue nel loro agire. La Visite, presentato al Fid Marseille, lo scorso luglio, e in prima italiana a Filmmaker a Milano, è un viaggio nei secoli della nostra civiltà occidentale e della sua storia ripercorsa attraverso il rapporto che lega, quasi inevitabilmente, l’arte al potere. Modalità di produzione, committenti, temperamento dell’artista, equilibri rischiosi e sottili.
Siamo a Versailles, la Reggia simbolo del potere assoluto, un uomo piccolino che si esprime con dei versi sonori, e uno grande (sono Bobò e Michael Londsale) attraversano i saloni sontuosi che appaiono completamente deserti. Si soffermano davanti ai quadri che narrano battaglie, morti, guerre, ai ritratti e alle statue dei «grandi uomini», sovrani, condottieri. Nel procedere commentano ciò che vedono, lasciano tracce del loro passaggio, innocui oggetti da bambini che appaiono quasi paradossali nella maestosità del luogo. Eppure basta a questi due magnifici anarchici per dissacrare il potere e come in un gioco di altri tempi, senza videogame né playstation o strategie di ruolo, rivelare la natura di un occidente beffardo e sprezzante, adagiato sulla celebrazione del sangue, dei morti, della sopraffazione. E di un’arte che ne asseconda l’immagine.

 

 

La Visite appare tra gli «oggetti» del’anno che sta finendo come un contrappunto al Sokurov di Francophonia, la sua versione libertaria che al trionfo reazionario della celebrazione di quei valori, tanto cari al regista russo, predilige una dimensione ludica eppure lucidamente sagace. E senza compiacersi della propria forma, senza dichiarare a ogni fotogramma l’assoluto (che non c’è).

 

 

Nell’arte il potere trova uno specchio di sé ma gli artisti sono coloro che in quel riflesso dovrebbero aprire crepe, deviazioni detour; e questo cerca la macchina da presa di Delbono muovendosi leggera negli spazi regali per scrutarne i segreti, per smuoverne l’immutabile secolarità mentre Bobò diventa Luigi XIV, siede sul trono e comanda con naturalezza. Il potere è molto umano…

 

 

Nei passaggi da una sala all’altra i due continuano la loro conversazione, non sappiamo chi sono, da dove arrivano, come sono finiti lì mentre nulla sembra esserci più intorno. Il loro sguardo è puro, diretto, entra nella Storia e ne coglie i legami e le ripetizioni oltre il tempo.

 

 

 

Quella che potrebbe essere una «visita» istituzionale si trasforma in una sfida del cinema, la messa alla prova delle immagini e della loro forza. Lungo i bordi dei fotogrammi i due ci lasciano vedere un’altra storia e siamo noi a doverla catturare. Mentre fuori, nel giardino, il tempo sembra essere rimasto uguale.