Nell’affollato panorama della fotografia contemporanea il lavoro di Marina Ballo Charmet appare come una singolarità. Le sue immagini ritraggono ciò che rimane sulla soglia della percezione, quello spazio intermedio dove affiorano «il rumore di fondo della mente», la latenza, la multivocità dell’esperienza quotidiana, e sottolineano al tempo stesso quanto nel visibile vi è di incerto, di alieno: la sua qualità perturbante. Nata a Milano nel 1952, attiva da più di tre decenni, Ballo Charmet fissa sulla pellicola 35mm spazi anonimi – interni di abitazioni, strade, la città costruita, scarni scenari naturali –, nei quali la sua fotografia sembra esporsi intenzionalmente ai moti inconsci suscitati dall’attrito casuale con cose e persone. Le sue immagini non cercano di persuadere o di sedurre, appaiono spoglie, antiretoriche, e insieme dense e personalissime; fanno avvertire la presenza di un universo materiale che ci elide, fiaccano la costante tentazione a interpretare il mondo attraverso la lente deformante dell’antropomorfismo. Vi si ritrova un catalogo di «cose» indefinibili, anodine, riprese spesso in primissimo piano e non a fuoco: angoli di marciapiedi, i balconi anneriti di anonimi condomini, un selciato, dettagli di volti senza identità, dettagli colti in momenti di luce incerta o di lenta transizione atmosferica – albe, crepuscoli, foschie – che rinviano a uno «stato oceanico» dell’immaginazione.
Ho incontrato Marina Ballo Charmet in occasione della sua mostra antologica Au bord de la vue Linee biografiche in corso al MAGA di Gallarate (a cura di Jean-François Chevrier, catalogo Danilo Montanari Editore, fino al 6 gennaio), seconda tappa di un progetto avviato la scorsa primavera nello spazio Le Bleu du Ciel di Lione.
Nella tua mostra a Gallarate raccogli un trentennio di attività. C’è un taglio particolare nell’esposizione?
Come mi capita sempre quando riesce la collaborazione con un curatore, una mostra è un’occasione per vedere sotto un’altra luce il mio stesso lavoro. Jean-François Chevrier, con cui negli anni ho sviluppato un dialogo molto fruttuoso, ha realizzato un percorso non cronologico, accostando fotografie che appartengono a serie e a momenti diversi, ad esempio le stampe a colori di Primo campo esposte vicino agli scatti in bianconero di Con la coda dell’occhio. È una scelta che consente di fare a colpo d’occhio associazioni inattese tra le immagini, di creare un andamento ritmico, quasi musicale.
Parliamo dei tuoi inizi. Quando e perché hai iniziato a usare la fotografia?
Direi a metà anni ottanta; stavo facendo l’analisi personale per la mia formazione di psicoterapeuta. A un certo punto ho avuto voglia di usare la macchina fotografica: attraverso l’obiettivo le cose prendevano un senso diverso. Direi che fotografare mi ha permesso di ripensare il rapporto con la realtà.
In che senso?
La fotografia permette di vedere le cose come se fosse la prima volta, realizza una sorta di «riparazione», come dicono gli psicoanalisti. È un riferimento a uno stato delle cose che rimanda a uno stato del sé.
Una costante del tuo lavoro è l’attenzione ai margini della percezione. La visione «periferica o distratta», come l’hai definita in un tuo testo. Perché fotografare in questo modo?
Nel gesto di fotografare ciò che mi interessa non è la messa a distanza, la composizione, ma al contrario il momento in cui il controllo si allenta. Questo avveniva già con la mia prima serie, Il limite. Ho capito subito che non mi interessava la descrizione minuziosa dell’oggetto-luogo, ma essere lì, dentro il luogo, dare il senso di un’esperienza.
«Con la coda dell’occhio», a inizio anni novanta, è il progetto con cui la tua fotografia giunge a piena maturità. Com’è nata la serie?
Nel 1992 ho iniziato a scattare fotografie dall’altezza di un bambino di tre o quattro anni e a riprendere da quel punto di vista il tessuto urbano. Uscivo al mattino presto o al crepuscolo per sfruttare la luce diffusa, senza ombre: l’inquadratura nasceva sempre da un rapporto empatico col luogo, da una esigenza preconscia, non da un’intenzione razionale. L’altra novità in questa serie è il fuori fuoco. Mi interessava mettere al centro e rendere monumentale ciò che sta al margine della nostra percezione cosciente.
Citi spesso due autori che hanno riflettuto sul processo creativo e l’immagine, Anton Ehrenzweig e Salomon Resnik.
Sì, sia Ehrenzweig, con la sua idea di «visione periferica», che sta sul margine della coscienza e viene percepito debolmente, avvertito più che visto, sia Resnik – che insiste invece su un tipo di conoscenza «distratta», legata al preconscio –, mettono l’accento su una modalità percettiva più ricca di quella consapevole.
In questa attenzione al non intenzionale c’è una convergenza imprevista tra psicoanalisi e fotografia?
Sì, in fondo quelle che fotografo sono le parti rimosse della città, e si potrebbe paragonare il lavoro con l’immagine a quello psicoterapeutico, in cui si deve lasciar fluttuare la mente e ascoltare il paziente. E questo non è molto diverso da quel che succede nel processo creativo quando fai il vuoto nella mente, la lasci vagare e ti metti in contatto con l’esterno senza un controllo razionale, con un’attenzione fluttuante.
Al MAGA sono presenti due video molto recenti: «Giudecca. Le ore blu» e «L’alba». Sono due meditazioni sul tempo?
Soprattutto sulla luce. In Giudecca. Le ore blu, ho ripreso il momento di trapasso dal giorno alla notte e viceversa. L’ora blu è quel momento di sospensione, al mattino, appena prima del risveglio dei suoni della natura e degli animali, reso attraverso il movimento dei riflessi sull’acqua, un fenomeno che abitualmente non osserviamo. In L’alba ho messo invece la videocamera di fronte alla facciata del Duomo di Milano e ho ripreso per cinquanta minuti il passaggio dalla notte al giorno. Il passaggio della luce è fluido così come lo stato delle cose nella piazza. È il risveglio della città che torna a vivere dopo i silenzi e il buio della notte.
Nel tuo abbassare il punto di vista c’è una critica implicita sia al supposto primato dell’occhio sugli altri sensi sia alla modalità tipica della fotografia documentaria, al suo «tutto a fuoco»?
È una critica a un modo razionalista di intendere la visione. Ho sempre pensato la mia fotografia in modo tattile, nel senso in cui lo intendeva Merleau-Ponty: per vedere bisogna porsi come un cieco con il bastone che entra in contatto con le cose. Guardare dall’alto equivale sempre a tenere sotto controllo. Per entrare nel luogo, per creare un rapporto empatico, è necessario invece avvicinarsi alla terra, alla dimensione orizzontale che ci contiene.
Questo rapporto empatico è anche al centro di «Primo campo», la tua serie di grandi stampe a colori con dettagli di volti estremamente ravvicinati.
Sì, lì l’idea di partenza è il punto di vista di un bambino molto piccolo in braccio a una persona familiare. La visione ravvicinata suggerisce un’intimità, una vicinanza tattile e olfattiva.
Si potrebbe dire, in conclusione, che nella tua pratica la fotografia acquista un ruolo diverso da quello di testimoniare il «già stato», ci mostra invece l’imprevedibilità, la plasticità dei processi mentali e affettivi che intessono il nostro rapporto con il reale?
Le fotografie non devono dare risposte ma aprire e porre domande, mostrare qualcosa del nostro essere quotidiano, qualcosa che ci appartiene, illuminare la nostra mobilità percettiva ed esperienziale. Non sono solo testimonianza.